ROMA – Il frangente storico che sta vivendo l’Unione europea, invischiata a doppio filo con la guerra in Ucraina che non conosce tregua da ormai tre anni, impone ai Ventisette l’urgenza di una seria, ed equilibrata, riflessione sulla difesa comune europea, attualmente “delegata” quasi interamente all’Alleanza atlantica, la Nato. La riflessione, a dirla tutta, è di più ampio respiro: è possibile costruire una “Nato europea”? Gestire difesa, armamenti e sicurezza dell’Ue dentro l’Ue, mantenendo l’indipendenza politica e finanziaria proprio come la Banca centrale europea si occupa della gestione dell’Euro e della politica monetaria interna. L’idea è quella di investire su una “spesa intelligente”, in cui l’Ue sia autosufficiente tanto nella decisionalità quanto nel criterio finanziario di investimento.
Un’Europa unita o una somma di Stati?
Il dibattito è aperto e non scevro da alcune contraddizioni politiche, come lo spauracchio di un isolazionismo dall’asse atlantico di fronte alle grandi sfide geopolitiche di un futuro che è già presente (dalla cybersicurezza, alla partita nucleare fino all’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella fabbricazione dei nuovi armamenti). Ma il punto di vista da cui parte l’idea di una difesa comune va oltre e impone un interrogativo: oggi l’Ue si mostra agli altri Paesi come una “macchina” ben collaudata e coesa, oppure l’impressione è che ci sia una sommatoria di Stati che, a seconda del vertice di turno, assumono posizioni e impegni senza una vera direzione unitaria?
Il peso degli Stati Uniti nella Nato
La domanda è provocatoria, ma reale. Soprattutto se pensiamo che all’interno dell’Alleanza atlantica uno vale uno e l’Ue – seguendo i conti – vale meno degli Stati Uniti. Non è un segreto che, infatti, sia proprio la Casa Bianca a fare il bello e il cattivo tempo della gestione Nato, tanto da arrivare a chiedere all’Europa – nella Strategia di sicurezza nazionale Usa – di porre fine alla “continua espansione” della Nato e di “liberarsi dal sostegno militare americano”. Per il presidente Usa, Donald Trump, tutto questo si chiama Make Europa great again, ma per noi europei significa accettare un diktat per poter europeizzare la Nato: portare la spesa militare dei singoli Paesi dal 2% al 5% del Pil entro il 2035.
I numeri della Nato e il contributo europeo
La Nato dispone di un budget del valore di 4,6 miliardi di euro nel 2025 e di 5,3 miliardi stimati per il 2026, con tre principali obiettivi in comune: il bilancio civile, il bilancio militare e il Programma di investimenti per la sicurezza. Questa spesa degli Stati, basata sul Pil dei Paesi membri, è irrisoria rispetto al finanziamento indiretto Nato che ammonta a oltre 1.587 miliardi di dollari stimati nel 2025. In questo quadro, l’Unione europea incide per il 59,4% del contributo diretto complessivo.
Chi paga e chi decide
Il vero perno della questione non è tanto se stare dentro o fuori la Nato, ma chi paga (e quanto) il prezzo di starci dentro in relazione a quanto può effettivamente decidere nella strategia atlantica e a quale sia il ritorno, in termini di difesa nell’ambito Ue.
Il “posto” dell’Unione in un’Alleanza a trazione Usa
La Nato, che è un’organizzazione intergovernativa finanziata dai suoi Paesi membri, è attualmente composta da 32 Stati e quelli europei sono 23 (mancano all’appello Austria, Irlanda, Malta e Cipro che sono solo associati ma non Membri). Gran parte dell’Unione, quindi, siede nel Consiglio politico Nord Atlantico che discute e decide sulle iniziative da intraprendere, sia in termini di difesa e prevenzione, sia nell’eventualità di un attacco a una delle parti dell’Alleanza le cui regole sono stabilite dall’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico (Washington Dc – 4 aprile 1949).
Difesa reciproca e sovranità nazionale
Se vale in termini assoluti il principio solidaristico di difesa reciproca, è vero anche che ogni Stato, nel rispetto della propria sovranità nazionale, decide quanta parte del proprio Prodotto interno lordo investire in difesa, e quindi nell’Alleanza. Nonostante questo però, per usufruire di questa solida alleanza, bisogna fare i conti con delle direttive che negli ultimi anni sono diventate sempre più stringenti, a causa della guerra in Ucraina e di una tensione a rafforzare la difesa collettiva.
Come si finanzia la Nato
La Nato si finanzia attraverso i contributi diretti e indiretti dei suoi membri. I fondi comuni della Nato sono composti da contributi diretti ai bilanci e ai programmi collettivi. Il bilancio Nato vero e proprio ammonta a circa 4,6 miliardi di euro per il 2025 e fino a 5,3 miliardi di euro per il 2026 che consente all’Alleanza di fornire capacità e gestire l’intera Organizzazione e i suoi comandi militari. Si tratta, in soldoni, dell’0,3% del bilancio totale per sostenere basi e le infrastrutture militari (terrestri, aeree, marine) e forze comuni (tra cui anche costi di addestramento, stipendi e all’Alleanza e dislocate nei territori dei Paesi membri.
Il peso reale della spesa militare
Ma la vera spesa che sostiene la Nato è il contributo indiretto, ovvero le quote di Pil che ogni Paese destina alla difesa. L’Unione europea e il Canada nel 2025 (secondo le stime Nato) spendono un totale di oltre 607 miliardi dollari – di cui l’Ue circa 564 miliardi – mentre da soli gli Stati Uniti investono in difesa oltre 980 miliardi di dollari: per un totale di contributo stimato alla Nato pari a oltre 1.587 miliardi di dollari. È presto detto, allora, che la trazione Usa dell’Alleanza è schiacciante, laddove contro un 35,5% europeo di spese ce n’è uno del 61,7% degli Stati Uniti.
La corsa al riarmo e le nuove direttive Nato
La via americana della corsa al riarmo – ricordiamo che gli Stati Uniti sono governati da un presidente che pochi mesi fa ha rinominato il ministero della Difesa in ministero della Guerra – è diventata l’orizzonte verso cui l’Alleanza tende. Proprio a giugno 2025 nell’ultimo vertice Nato all’Aia guidato dal segretario generale ed ex primo ministro dei Paesi Bassi Mark Rutte, la direzione intrapresa è stata quella di aumentare l’investimento e di chiedere a tutti i Paesi un raggiungimento del 3,5% in difesa e spese militari dell’1,5% in protezione di infrastrutture critiche, difesa delle reti, preparazione e resilienza civile, innovazione e rafforzamento della base industriale di difesa.
In questo senso, non dovrebbe essere irrilevante la posizione dell’Ue, visto che compone la maggioranza numerica della Nato che, tuttavia, ha una direzione politica più statunitense che europea. Dall’attacco della Russia di Putin sferrato nel febbraio 2022 sull’Ucraina di Zelensky, si è scoperchiato infatti il vaso di Pandora. E la disomogeneità europea in fatto di politiche di difesa ha iniziato a pesare. L’Ue si è divisa, infatti, tra i ferventi sostenitori del presidente ucraino e dell’ingresso di quel Paese nell’Ue e nella Nato e tra quelli più moderati o comunque contrari alle ingenti spese militari che l’Alleanza Atlantica deve (e vuole) sostenere per la difesa del popolo ucraino contro Mosca. Ma chi paga questo prezzo?
Chi investe di più nella Nato
Dal 2019 in poi è stata la Germania a trainare il grosso degli investimenti europei nella Nato (prendendo il posto della Francia che fino al 2018 era il Paese Ue che investiva di più): nel bilancio Nato 2025 non c’è ancora una proiezione di spesa, ma sul 2024 si parla di quasi 94 miliardi di dollari investiti dal Pil. Le succede la Francia con 66,5 miliardi di dollari e al terzo posto c’è l’Italia con una stima di 48,8 miliardi di dollari (contro i 35 del 2024 e i 33 del 2023, a testimonianza della crescita costante di spesa). A seguire nella top five si posizionano la Polonia (circa 44 miliardi) e la Spagna con circa 35 miliardi.
Di fatto, questi miliardi di dollari, si traducono in vari capitoli di spesa nei singoli Paesi. E possiamo capirlo meglio mettendo una lente di ingrandimento sopra le previsioni di spesa 2026-2028 del ministero della Difesa italiano contenute nella Legge di bilancio 2026 (che non ha ancora concluso l’iter parlamentare).
Il caso italiano: numeri e prospettive
Le spese finali stimate per il 2026 sono pari a 32.398 miliardi, suddivise in tre principali “missioni” composte da 11 programmi. La missione principale, a cui va il 94% del valore della spesa finale, è “Difesa e sicurezza del territorio” con un capitolo da 30.499 miliardi di euro che comprende: l’impiego dei Carabinieri per la difesa e sicurezza; l’impiego delle forze terrestri, aeree e marittime; la pianificazione delle Forze armate e degli approvvigionamenti militari; l’impiego dei Comandi e degli Enti interforze dell’Area tecnico/operativa e la pianificazione di programmi di ammodernamento degli armamenti (inclusa la ricerca e l’innovazione tecnologica e procurement militare). La restante parte della stima totale va alla missione “Sviluppo sostenibile e tutela del territorio e dell’ambiente” con 503,9 milioni di euro e alla missione “Servizi istituzionali e generali delle pubbliche amministrazioni” con 1.394 miliardi di euro.
L’Italia rientra tra i Paesi che non raggiungono ancora il 2% del Pil (attualmente oscilla tra l’1,5% e l’1,6%), ma la cosa è destinata a cambiare se guardiamo alle direttive Nato prima esposte. Secondo l’Osservatorio Conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo obiettivo del 3,5% sul Pil rappresenta “un salto sostanziale, con implicazioni finanziarie rilevanti. Tradotto in cifre, e considerando il Pil del 2024, significherebbe passare da una spesa attuale di circa 32 miliardi di euro secondo stime Nato a oltre 76 miliardi (entro il 2035, nda): questo aumento di 44 miliardi corrisponde, per dare un termine di paragone concreto, al 57% della spesa pubblica per l’istruzione. A queste spese si devono aggiungere quelle, presumibilmente almeno in parte aggiuntive, per arrivare all’1,5% di defence-and-security related spending”.
È di pochi giorni fa una dichiarazione del ministro della Difesa, Guido Crosetto, ad Avvenire, in relazione alle future mosse che l’Alleanza Atlantica dovrebbe intraprendere: “Serve una trasformazione profonda e veloce della Nato, che la faccia diventare una struttura capace di garantire un’alleanza per la pace nel mondo, un ‘braccio’ armato ma democratico, di una Onu rinnovata”.
Difesa atlantica o difesa europea
Un braccio armato, ma democratico, per la pace. Il punto è che se il braccio sta sempre nello stesso corpo, è difficile che qualcosa possa cambiare. E la cosa determinante è verso quale via il braccio sta tendendo: ogni investimento nell’Alleanza è un investimento nella difesa atlantica, ma non tout court nella difesa europea. Per avere un corpo prestante, capace di stare in piedi senza stampelle, ben “collaudato” bisognerebbe europeizzare l’obiettivo. I fondi ci sarebbero, a partire dagli oltre due miliardi e mezzo di contributo diretto che diamo alla Nato. L’immaginario politico di pensare all’Unione europea come una Confederazione di Stati, anziché sommatoria di Paesi, con proprio esercito e difesa comune, quello ancora no. Non è maturo.

