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Violenza economica sulle donne: cos’è, cosa dice la legge e come proteggersi in modo efficace

La violenza economica sulle donne è una delle forme di violenza più diffuse, subdole e capaci di compromettere l’intera esistenza del gentil sesso. Ma di cosa si tratta esattamente e come riconoscerla? Come proteggersi?

Proviamo a fare un po’ di chiarezza.

Cos’è la violenza economica sulle donne e come riconoscerla?

La violenza economica sulle donne, secondo la definizione dell’European Institute for Gender Equality, consiste in tutti quegli atti “di controllo e monitoraggio del comportamento di un soggetto in termini di utilizzo e distribuzione di denaro, nonché la minaccia costante di negare le risorse economiche”.

Avviene per lo più dentro le mura domestiche, quando alle donne è di fatto negata la possibilità di contribuire – con le stesse opportunità riservate all’uomo – all’economia familiare e di essere economicamente indipendenti.

Questo accade tutte le volte in cui è l’uomo a lavorare per sostenere le spese dell’intera famiglia; quando è la donna a occuparsi in modo esclusivo della cura della casa e dei figli, rinunciando del tutto al lavoro o a parte delle ore dedicate all’attività professionale, o ancora sobbarcandosi da sola i doveri del “doppio lavoro casalingo”; quando il patrimonio è gestito da un terzo; quando viene eroso il patrimonio della moglie/compagna, senza darle l’opportunità di lavorare o di studiare; quando la donna deve chiedere il “permesso” per accedere alle risorse della famiglia, deve giustificare e rendicontare le spese e/o non viene messa a conoscenza del reddito familiare. E ancora, avviene quando l’uomo vieta, ostacola o boicotta il lavoro della compagna; quando la donna non vede riconosciuto il proprio lavoro in casa e/o viene minacciata di ritorsioni economiche a danno proprio o dei figli; quando alla donna viene chiesto di sottoscrivere mutui e finanziamenti o di fare da prestanome per le attività economiche del marito.

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Non solo durante il matrimonio

Ma la violenza economica si manifesta anche e soprattutto fuori dalla casa coniugale, quando la moglie/compagna decide di lasciare l’uomo che aveva scelto e quest’ultimo mette in atto tutta una serie di strategie per negarle le opportunità professionali e persino il mantenimento dei figli: il mancato rispetto del diritto di visita e il mancato versamento dei contributi di mantenimento ai minori ne sono un valido esempi. Così come il tanto diffuso “auto-esonero” di molti padri dal provvedere all’assistenza dei figli durante le chiusure scolastiche o nelle ore pomeridiane, quando i più piccoli escono da scuola e necessitano di essere accuditi e di svolgere i compiti.

In questo modo, le donne vittime di violenza finiscono spesso per ritrovarsi senza una casa, senza un lavoro, con i figli a carico e magari con i debiti contratti dal marito sulle spalle. Come se ciò non bastasse, si ritrovano a dover pagare pure una baby-sitter, una ludoteca o un asilo per sorvegliare i più piccoli per cercare di guadagnarsi da vivere.

Le fasi della violenza economica

La violenza economica viene raramente riconosciuta dalle donne. Sia perché culturalmente la figura femminile è associata alla cura della casa e dei figli, sia perché si tratta di una violenza così comune da passare come forma di “normalità”.

Inoltre, gli uomini che operano questa tipologia di violenza sulla propria compagna difficilmente lo fanno, sin da subito, in maniera “aperta”. È più frequente, invece, che la violenza economica avvenga come escalation di piccoli atti che poi vanno a comporre il gigantesco puzzle della subordinazione della donna nel contesto familiare.

Nella fase iniziale, l’uomo solitamente comincia con il decidere in modo autonomo e non condiviso gli investimenti, gestendo esclusivamente il conto corrente della famiglia. Poi pretende i rendiconti dettagliati delle spese della donna, le impedisce di accedere e disporre delle risorse economiche e non la rende partecipe delle entrate.

Successivamente riconosce un piccolo budget mensile/settimanale alla compagna, spesso irrisorio e insufficiente, per la spesa alimentare, negando beni primari come cure mediche e medicine; utilizza il denaro come mezzo di ricatto e di ritorsione. Nei casi più gravi – e spesso all’alba della separazione – l’uomo può sperperare il patrimonio della famiglia a insaputa del partner, obbligandolo a fare da prestanome o da sottoscrittore per prestiti e fideiussioni di cui rimane esclusivo beneficiario.

La violenza economica è un reato?

Alla stregua di altre forme di violenza “silenziose”, la violenza economica non è considerata un reato autonomo in Italia. Ma è comunque inquadrabile tanto dal punto di vista civilistico, quando dal punto di vista penale.

Seppur distinta dalla violenza psicologica in quanto tale – di cui, secondo i dati Istat, è rimasto vittima quasi il 90% delle donne che hanno denunciato una violenza subita nel 2021 – la violenza economica comporta anche gravi ripercussioni sullo stato emotivo e psicologico della donna che la subisce e rientra, in funzione dei tratti del caso specifico: nel reato dei “maltrattamenti in famiglia” (art. 572 del codice penale); in quello della “violenza privata” (art. 610 del codice penale); in quello della “privazione parziale o totale delle risorse economiche necessarie per il sostentamento personale e dei figli” (art. 570 del codice penale) o della “violazione degli obblighi di assistenza familiare” (legge n.154 del 2006).

Come proteggersi

Per proteggersi dalla violenza economica occorre innanzitutto conoscerla e acquisire tutte quelle informazioni utili a salvaguardarsi tanto in caso di matrimonio quanto in caso di convivenza.

Attenzione alla violenza economica: l’intervista ad Andrea Grasso

Al fine di far conoscere meglio la violenza economica, su QdS interviene Andrea Grasso, presidente del Consiglio notarile dei distretti riuniti di Catania e Caltagirone.

Presidente, molte donne si sposano senza conoscere le differenze tra il regime della comunione dei beni e quello della separazione dei beni. Può spiegarci la distinzione e quale sia la scelta più conveniente, tanto per le casalinghe, quanto per le lavoratrici?

“Il regime della comunione legale dei beni, introdotto dalla riforma del diritto di famiglia nel 1975 è un regime ‘solidaristico’; tutti gli acquisti effettuati dai coniugi in costanza di matrimonio, anche separatamente, si considerano come effettuati da entrambi i coniugi, con alcune eccezioni quali, ad esempio, i beni ricevuti per successione o per donazione. Lo scopo del legislatore dell’epoca era, tra gli altri, quello di tutelare chi contribuisce ai bisogni della famiglia con il lavoro domestico. Per scegliere il regime della comunione legale dei beni nulla devono fare gli sposi al momento del matrimonio in quanto in assenza di diversa indicazione, il loro regime è quello della comunione legale dei beni”.

“Qualora, invece, i coniugi volessero tenere distinti i loro patrimoni, anche con riferimento ai beni acquistati in costanza di matrimonio, sarà necessario effettuare la scelta per il regime della separazione dei beni al momento del matrimonio, con dichiarazione da rendere all’ufficiale celebrante o in epoca successiva con atto notarile”.

“Non c’è una scelta più conveniente che valga per tutte le ipotesi, ma bisogna valutare caso per caso in rapporto non soltanto allo status di casalinga o di lavoratrice, nell’accezione più tradizionale del termine, della moglie, ma anche della condizione e della tipologia di impiego sia del marito che della moglie, se lavoratori autonomi o dipendenti, se imprenditori o liberi professionisti. La cosa più importante tuttavia è che la scelta del regime della famiglia sia una scelta consapevole. Si parla tanto in medicina di consenso informato: ritengo che anche in ambito familiare si debba lavorare sul consenso informato nelle scelte più importanti”.

Se la propria è un’unione di fatto, come potersi tutelare economicamente?

“La legge Cirinnà, entrata in vigore nel 2016 e che ha istituito le unioni civili, ha finalmente anche regolamentato i rapporti di convivenza. Ai conviventi sono riservati alcuni diritti riconosciuti ai coniugi, in particolare in materia successoria nel diritto di abitazione della casa familiare o, nelle ipotesi di scioglimento del rapporto, il riconoscimento del diritto a un assegno alimentare in proporzione alla durata del rapporto di convivenza”.

“In questo contesto la tutela anche in ambito economico, può essere offerta dalla possibilità di stipulare un contratto di convivenza con il quale regolamentare i rapporti anche patrimoniali non soltanto durante la convivenza ma anche in previsione dello scioglimento del rapporto”.

Le statistiche, i problemi e le soluzioni

Stando alle statistiche, le donne che diventano madri in Italia hanno più probabilità di non lavorare che di lavorare. È possibile farsi riconoscere la cura della casa e dei figli come un vero lavoro, pretendendo parte delle entrate del marito/compagno?

“C’è da dire di più, solo il 30% delle donne italiane dopo avere avuto un figlio riprende a lavorare. Inoltre le donne italiane lavorano in media di più degli uomini, in media 8 ore al giorno contro 7 degli uomini, ma solo un quarto delle loro ore di lavoro è remunerato; anche le donne che hanno un impiego o un lavoro autonomo dedicano gran parte del loro tempo alla cura della casa e dei familiari”.

“In base alla legislazione attuale la risposta diretta alla domanda è ‘no’. Tuttavia il coniuge è libero di spendere il proprio stipendio come crede soltanto dopo avere contribuito a soddisfare i bisogni economici della famiglia”.

Senza marito e tutele o con padri inadempienti: cosa fare?

Spesso le vittime di violenza, quando riescono ad allontanarsi dall’aggressore, si ritrovano senza un lavoro, senza più una casa e con tutti i figli a carico. Per le sentenze di separazione occorrono talvolta anni e, anche quando il giudice stabilisce che l’uomo debba versare un assegno di mantenimento mensile, basta che quest’ultimo si metta a lavorare in nero e non abbia più alcun bene intestato per non pagare un sol centesimo. Cosa si può fare in questi casi?

“In realtà nei casi in cui si verifichino episodi di violenza domestica l’iter procedimentale è più rapido del normale e l’intervento delle istituzioni sempre più veloce ed efficace. Tuttavia è anche vero che in casi limite si possa verificare quanto da Lei evidenziato. In questi casi, ma direi in tutti i casi, è necessario rivolgersi alla rete assistenziale supportata dalle istituzioni, agli sportelli rosa presenti sul territorio, alle associazioni e in particolare, per quanto concerne l’ultimo esempio da lei fatto, al proprio avvocato di fiducia”.

Se i padri sono inadempienti, ci si può rivalere sui nonni paterni. È vero che, se la donna riesce a trovare un lavoro e risulta riuscire a mantenere se stessa e i figli, nemmeno i nonni paterni possano essere obbligati a contribuire economicamente?

“Gli obblighi di mantenimento a carico degli ascendenti, in questo caso dei nonni, sono sussidiari e quindi subordinati rispetto a quelli dei genitori per cui nel caso anche uno solo dei genitori sia in grado di provvedere al mantenimento dei figli non possono essere chiamati a contribuire i nonni, per come precisato anche dalla Cassazione con Ordinanza del 2018 (sez. VI civ. 2/5/2018 n. 10419)”.

Accade frequentemente anche che le donne si trovino sommerse dai debiti dell’ex compagno/marito, che magari ha intestato loro attività economiche alle quali non hanno mai davvero partecipato. Esiste un modo per dimostrare tutto questo e ottenere la cancellazione del debito?

“Purtroppo accade spesso che la donna si trovi sommersa dai debiti dell’ex marito/compagno per avere avuto intestato attività dello stesso o per avere sottoscritto delle garanzie reali o personali per l’attività imprenditoriale del marito. Questa può essere la conseguenza di una ragionata e ponderata partecipazione di entrambi coniugi alla conduzione economica della famiglia o la conseguenza di una inconsapevole sottoscrizione di fideiussioni o garanzie di altro tipo”.

“Il consenso informato di cui ho parlato prima deve essere alla base di qualsiasi azione della donna nella conduzione economica della famiglia. Ottenere successivamente la cancellazione del debito è estremamente difficile in quanto bisognerebbe dimostrare la mala fede del creditore per cui è necessario porre la dovuta attenzione prima di compiere qualsiasi scelta”.

Donne e la paura di denunciare la violenza economica

Le vittime di violenza talvolta non denunciano i propri aggressori per paura di perdere il diritto d’abitazione nella casa familiare. O perché non vogliono trasferirsi in una casa rifugio, cambiando le abitudini dei figli, già provati dalla violenza assistita. È possibile allontanare un marito/compagno violento e rimanere a casa propria, o è la vittima a essere “costretta” ad allontanarsi?

“La tutela della vittima di violenza domestica è sicuramente una priorità delle istituzioni e tutta la normativa recente è volta in questa direzione, per cui non è la vittima a doversi allontanare ma il carnefice. Tuttavia il problema vero sta nella prima fase dell’allontanamento, la fase in cui la vittima trova la forza di denunciare; in quel momento si attivano tutte le misure di salvaguardia fra cui la collocazione della vittima e dei minori in strutture protette, questo perché non è allo stato attuale possibile intervenire con provvedimenti più incisivi nei confronti del carnefice se non nei casi di flagranza di reato”.

“È sicuramente questa una situazione a cui bisogna lavorare in sede legislativa e in questa direzione si inserisce la legge 19 luglio 2019 n. 69 cosiddetta ‘Codice rosso‘ e in particolare il ddl n.2530 che prevede un ampliamento delle ipotesi in cui viene disposta la misura cautelare e l’estensione alle ipotesi del tentativo di reato e della qualificazione della sussistenza delle ipotesi della flagranza”.