Le botteghe artigiane del centro storico muoiono inghiottite da tasse, crisi e Gdo - QdS

Le botteghe artigiane del centro storico muoiono inghiottite da tasse, crisi e Gdo

Margherita Montalto

Le botteghe artigiane del centro storico muoiono inghiottite da tasse, crisi e Gdo

sabato 23 Novembre 2013

Desertificazione commerciale anche per i mestieri di un tempo, tramandati tra generazioni

CATANIA – “Impara l’arte e mettila da parte”. Questo si diceva un tempo per incoraggiare i giovani ad imparare “un mestiere”. E i giovani degli anni ‘40, ‘50, ’60, nell’immediato dopoguerra, continuavano a mantenere intatta l’eredità tramandata dai loro padri con il lavoro artigianale, altri si attivavano con nuove botteghe. Il lavoro dell’artigiano era dunque in progress, ma i tempi cambiano, i livelli di istruzione elevano lo status sociale, sempre meno giovani vogliono “arruolarsi” come artigiano. Si preferisce il lavoro “sicuro”. Non ci sono più “garzoni”, sempre meno gli “apprendisti. A deprimere l’importanza storica delle botteghe artigiane e il valore della qualità dei manufatti ha contribuito la grande distribuzione con il “tutto pronto e il costa meno”, la crisi economica e i costi del lavoro.
Un giro fra i “dammusi” di Catania, luoghi dove l’artigiano esprimeva la sua maestria, fra utensili e ripiani da lavoro, riporta a tempi ormai trascorsi. Una luce in penombra illumina quelle botteghe superstiti, dove ancora qualcuno mantiene la sua attività fra mille sacrifici. Le figure artigianali hanno caratterizzato i tempi: barbieri, falegnami, fabbri, ebanisti, calzolai, sarti. Abbiamo raccolto le testimonianze dei titolari di alcune botteghe quali migliori fonti per capire meglio come stia declinando la bottega artigiana.
Un barbiere si racconta. “Ho rilevato il salone da barba, esistente dal 1958 e ubicato nel centro storico di Catania, nel 1989. La vecchia gestione dal 1958 al 1985 contava 3 impiegati. Quando rilevai l’attività, ho trattenuto due dei tre aiutanti. Nei primi dieci anni gli affari andavano a gonfie vele, ma verso il 2000, avvertii i primi disagi d’incasso che mi hanno costretto al licenziamento di un aiutante. Il motivo sempre lo stesso: tasse in aumento, accertamenti fiscali sempre in agguato, fino a quando sempre più giù. 2013, mi ritrovo a lavorare solo, senza dipendenti e sempre più esposto a stenti. I clienti habituè, che frequentavano il salone almeno due volte alla settimana per radersi e una volta ogni mese e mezzo per il taglio dei capelli, preferiscono radersi a casa e tagliare i capelli quando occorre.
“La forte difficoltà – prosegue il nostro “Figaro” – si è accentuata perchè parecchi colleghi del settore si sono associati al franchising nazionale, ha inciso l’invasione degli stranieri fra cui i cinesi che hanno aperto sale per uomo e donna nelle zone più centrali della città. Come possiamo pensare che in una situazione del genere si possa essere incoraggiati ad assumere per insegnare ai giovani l’arte? In ogni caso manca la volontà dei giovani ad intraprendere questo lavoro, preferiscono rimanere disoccupati a bighellonare, piuttosto che impegnare il loro tempo in maniera proficua”.
La voce di un falegname racconta: “Ho la mia piccola bottega di falegnameria al centro storico di Catania dal 1962; ho lavorato senza dipendenti, ho sbarcato per quasi un quarantennio il lunario, tra alti e bassi ma da circa dieci anni ad oggi, un disastro. Non si capisce nulla, rimango per intere settimane senza ricevere una commessa. Le certezze di un tempo sono scomparse. Nei tempi d’oro il lavoro artigianale come il mio era apprezzato e ricercato, dalle piccole riparazioni ai lavori più impegnativi, la soddisfazione personale e il guadagno erano motivo di realizzazione e si ringraziavano le persone anziane per averci tramandato una delle più antiche arti esistenti al mondo. Ma tra crisi, tra ipermercati, fai da te ed altri., tutto si è capovolto, la gente acquista i materiali indispensabili e provvede da sé alle riparazioni”.
 

L’agonia delle maestranze e il crollo della qualità
CATANIA – “Sembriamo – prosegue il falegname – spazzati via dal commercio, ho già depositato la mia licenza e ho provveduto rapidamente alla cancellazione della partita Iva, ho chiuso l’attività, rimango dentro la mia ex bottega sperando che qualcuno richieda la mia prestazione per qualche lavoretto, giusto per andare avanti: dopo 40 anni di contributi di artigiano vivo con appena 580 euro di pensione”.
Anche un titolare di una antichissima fabbrica di sedie lamenta il cambiamento in negativo. “La gente è convinta di risparmiare acquistando nei centri commerciali. Non è così. Non trova confronto il prodotto artigianale realizzato con materie prime con prodotti scadenti. Non esiste rapporto qualità/prezzo. L’illusione del risparmio è solo momentanea. La qualità della grande distribuzione non è garantita come quella del lavoro artigianale”.
 
L’ebanista ci dice: “Una volta rappresentavamo la parte nobile dei falegnami. Ho iniziato questa attività nel 1965, avevo un laboratorio con 5 operai e lavoravamo sempre. Dal 2005 in poi c’è stato un crollo. Gli ordinativi diminuivano, la gente commissionava lavori importanti ma poi non poteva più pagare. Da quattro anni la mia vita è drammatica: licenziati gli operai, ho problemi economici che sto cercando di arginare”. Il sarto invece ci racconta che “sempre meno sono i clienti che richiedono un abito su misura, siamo ridotti dopo 50 anni di attività, a semplici e rare riparazioni”. “Apprendista sarto? Non vi è ombra”. L’agonia delle nostre antiche e preziose maestranze, orgoglio della manifattura artigianale è in atto.

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