Licenziamenti ingiustificati, indennizzi ad personam - QdS

Licenziamenti ingiustificati, indennizzi ad personam

Elettra Vitale

Licenziamenti ingiustificati, indennizzi ad personam

domenica 18 Novembre 2018

La Corte costituzionale ha depositato le motivazioni della sentenza con cui boccia l’articolo 3 del Jobs Act. Il congruo risarcimento verrà stabilito non a priori ma secondo la discrezionalità del giudice e senza limitazioni prestabilite, sebbene sempre nel rispetto dei limiti minimi e massimi fissati dalla legge. La sentenza della Corte ha valore retroattivo

ROMA – L’anzianità di servizio cessa di essere l’unico criterio per quantificare l’indennizzo da corrispondere al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Saranno invece i magistrati, in sede di giudizio a valutare il rimborso che verrà dunque personalizzato. Questo è quanto stabilito dalla sentenza 194/2018 emanata dalla Corte Costituzionale lo scorso 8 novembre e che verrà depositata ufficialmente nelle prossime settimane. La Consulta è infatti intervenuta sull’articolo 3, comma I, del decreto legislativo 23/2015, meglio conosciuto come Jobs act, dichiarandolo incostituzionale.
 
Più nel dettaglio, secondo i giudici di Piazza del Quirinale l’anzianità di servizio, finora applicata come criterio fisso per stabilire la suddetta indennità risarcitoria, è illegittima in quanto viola il principio di uguaglianza e di ragionevolezza ed entra in netto contrasto con il diritto e la tutela del lavoratore, sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione italiana.
 
Il comma dichiarato incostituzionale, infatti, sanciva che: “Il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”. Questi limiti, inoltre, erano stati innalzati, con il Decreto Dignità dello scorso luglio, a 6 e 36 mesi.
 
A questo punto, in caso di rescissione ingiustificata del contratto da parte del datore di lavoro, dovranno essere i giudici a determinare a propria discrezione e senza limitazioni prestabilite, sebbene sempre nel rispetto dei limiti minimi e massimi fissati dalla legge, l’importo del risarcimento, tenendo stavolta conto di altri fattori quali il numero dei dipendenti dell’azienda, le dimensioni dell’attività economica e il comportamento delle due parti che concorrono in causa, ovvero elementi che attengono alle norme preesistenti, come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Tale innovazione, a parere della Corte, risulta più opportuna per evitare che vengano poste sullo stesso piano situazioni tra loro molto diverse e che, invece, meritano una dettagliata analisi ad hoc.
 
Ma non è tutto. La Consulta ha individuato un secondo versante di incostituzionalità nell’articolo 3 del Jobs Act, in quanto è “irragionevole” considerare l’indennità di due mesi idonea risarcire il dipendente danneggiato ma che non è abbastanza “anziano”. Allo stesso modo, queste due mensilità non sono sufficienti per distogliere il datore di lavoro dal suo obiettivo di licenziamento. Stando all’articolo 24 della Carta sociale europea “tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento” e dunque, come sostenuto dai giudici del Quirinale, a una congrua riparazione del danno subito.
 
Come sempre, la sentenza della Corte ha valore retroattivo, il che vuol dire che tutte le cause che non hanno ricevuto ancora una formulazione dovranno adeguarsi alla nuova norma, nella speranza che il processo di conformazione alla regola diminuisca effettivamente le disparità piuttosto che incrementarle.
Il principio di discrezionalità che viene confermato anche in questo caso potrebbe infatti condurre, sul versante opposto, a stabilire indennizzi differenti per situazioni che, in realtà sono molto simili tra di loro.

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