Un passato tra mafia, narcotraffico e massoneria quello di Antonio Messina, l'ultimo degli arrestati nell'articolata indagine seguita alla cattura di Messina Denaro.
Per quanto sia riuscito ad attraversare mezzo secolo di storia della Sicilia senza mai ricevere una condanna per mafia, la Dda di Palermo non ha più dubbi sul conto di Antonio Messina. Per i magistrati, l’avvocato – titolo che gli viene ancora riconosciuto da chi lo frequenta, nonostante non eserciti più la professione per via dei guai giudiziari – è un esponente di Cosa Nostra e anche di primo piano.
Nato 78 anni anni fa a Campobello di Mazara, Messina è l’ultimo degli arrestati nell’articolata indagine seguita alla cattura di Matteo Messina Denaro. Stavolta però non si tratta di un semplice vivandiere, ma di una figura dotata di un’autonomia che lo avrebbe portato anche a pensare di sollecitare un cambio ai vertici della cosca campobellese, proprio negli anni in cui a nascondersi da quelle parti, ma senza privarsi di fare vita sociale, era il capomafia di Castelvetrano.
Tale proposito tuttavia non avrebbe trovato il gradimento di Messina Denaro. E ciò anche perché in ballo ci sarebbe stata la successione dell’anziano boss Leonardo Bonafede, storico amico del padre e a propria volta padre di Laura Bonafede, la donna che più di tutti gli fu vicina nella latitanza.
Curriculum degno di nota
Ripercorrere la vita di Antonio Messina, e in particolare modo le vicende che lo hanno portato a finire nei radar della giustizia, significa passare in rassegna alcune delle tappe che hanno segnato la Sicilia a partire dagli anni Settanta.
Di professione avvocato, con clienti di primo piano come Rosario Spatola, mafioso poi diventato collaboratore di giustizia, Messina è stato ritenuto tra i responsabili del sequestro di Luigi Corleo. Corleo era il suocero di Nino Salvo, l’uomo che insieme al cugino ebbe in mano la riscossione dei tributi in Sicilia. A disporre il rapimento – Corleo non tornò mai più a casa – furono i corleonesi di Totò Riina nell’ambito della lotta aperta per prendere in mano le redini di Cosa Nostra a discapito delle famiglie palermitane. Per quei fatti, Messina fu condannato a 14 anni.
Nel curriculum criminale dell’avvocato ci sono anche diverse sentenze in materia di narcotraffico, negli anni in cui la Sicilia era un hub internazionale nel commercio della droga. Per fare qualche esempio: Messina è stato ritenuto responsabile, con altri, dell’importazione di oltre mezza tonnellata di morfina e nove chili di eroina a inizio anni Ottanta, mentre un decennio dopo è stato coinvolto nell’arrivo nell’isola dalla Germania di una partita di quattro chili di cocaina.
A carico di Messina, nei cui confronti sono stati disposti i domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico, c’è anche una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. Reato che l’uomo avrebbe compiuto ininterrottamente nel corso degli anni Novanta e che gli è valsa una pena di oltre vent’anni di reclusione.
“Una presenza costante in una delle più pericolose e sanguinarie stagioni criminali-mafiose del nostro Paese”, è il ritratto che ha fatto di lui la gip Antonella Consiglio.
Massone in sonno
Messina è ritenuto essere anche un esponente della massoneria. A fare riferimento alla sua appartenenza alla loggia Domizio Torreggiani del Grande Oriente d’Italia è stato lo stesso 78enne. In una chat del 2022, monitorata dagli inquirenti, si definisce massone in sonno.
L’espressione indica gli appartenenti non più operativi. Posizione in cui si sarebbe collocato da sé per via di “una triste vicenda giudiziaria da innocente”. Il riferimento, confermato anche da Rosario Spatola in una dichiarazione di metà anni Novanta, riguarda i favori che Messina si sarebbe atteso dal giudice istruttore che seguì l’indagine sul sequestro Corleo. Un aiuto dettato dall’appartenenza alla massoneria dello stesso giudice, ma che alla fine non era arrivato.
“Nel 1983, mi confermò la sua appartenenza alla massoneria e che in quel momento si era messo in sonno, diciamo un po’ per protesta. Non lo avevano messo in sonno, era lui che si era messo”, dichiarò Spatola.
Il riconoscimento di Bagarella
Il peso criminale di Messina sarebbe stato riconosciuto anche da Leoluca Bagarella, il boss cognato di Totò Riina. Sarebbe stato proprio Bagarella – secondo la ricostruzione degli inquirenti – a proporre a Messina Denaro di fare entrare Messina dentro Cosa Nostra.
Dal canto proprio, l’avvocato, anche in tempi recenti, ha sostenuto di avere protetto in passato Bagarella. “Io ho dovuto dichiarare al processo: ‘Non conoscevo Leoluca Bagarella’”, raccontò Messina nel 2021 a un imprenditore di Campobello di Mazara. Per poi aggiungere: “Leoluca a me mi ha sempre difeso”.
Le auto bruciate
Dopo l’arresto di Messina Denaro e il sequestro della corrispondenza tenuta con le persone a lui più vicine, come Laura Bonafede, gli inquirenti sono riusciti a ricavare elementi sufficienti per rafforzare la tesi, che dagli anni Duemila in poi era stata sempre troppo fragile, riguardante il legame tra Messina e Cosa Nostra.
Negli scritti, l’avvocato viene indicato come Solimano. Nei suoi confronti, Laura Bonafede e lo stesso Messina Denaro si lasciano andare a giudizi non positivi. Messina viene accusato di atteggiamenti irrispettosi, al punto da poter ipotizzare ritorsioni ai suoi danni. Tra queste, l’incendio a due automobili denunciato dall’avvocato nel 2016.
All’origine di quel gesto, stando alla ricostruzione dei magistrati, potrebbe esserci stato il tentativo di Messina di pensare di accelerare il passaggio di consegne, all’interno della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, da Leonardo Bonafede ad altri soggetti. Un progetto non andato in porto ma che in qualche modo avrebbe dimostrato una volta di più come Messina fosse consapevole del proprio peso all’interno dell’organizzazione criminale.
Tale condizione negli ultimi quindici anni lo ha messo nelle condizioni di frequentare alla pari figure del calibro di Domenico Scimonelli, Giovanni Vassallo, Franco Luppino, Jonn Calogero Luppino. Con loro Messina avrebbe parlato di affari di diverso tipo: dalla gestione dei proventi di un oleificio controllato da Cosa Nostra all’apertura di centri scommesse al Nord, fino alla possibilità di contrabbandare gasolio e provare a ottenere un terreno confiscato. Il tutto provando a mantenere un profilo quanto più riservato possibile. “Se la parola è d’argento, il silenzio è d’oro”, è la frase che Messina, con la toga addosso, pronunciò nel 1983 a un uomo che deponeva contro un suo assistito. Quel suggerimento, dal sapore quasi di minaccia, gli causò l’accusa di subornazione di testimone.