Non si tratta più un lontano grido di allarme ma è diventato un urlo. Acqua che scarseggia, desertificazione che avanza nelle regioni meridionali, eventi atmosferici catastrofici, peggioramento della sicurezza alimentare per milioni di persone. Per diversi anni abbiamo pensato che la difesa dei mari significasse la tutela degli oceani, la preoccupazione per le isole del Pacifico minacciate dall’innalzarsi del livello dell’acqua o i pericoli per la barriera corallina. Pericoli, reali e gravissimi, ma che ora sono molto più vicini e il Mediterraneo è uno dei mari che più soffrirà per i cambiamenti climatici e le popolazioni lungo le sue sponde devono rapidamente iniziare a reagire.
Se ne è parlato alla seconda edizione della Conferenza Euro-Mediterranea “Mare Climaticum Nostrum”, organizzata dalla Fondazione Earth water agenda a Firenze, dove è stata illustrata la mappa aggiornata dei rischi climatici attuali e previsti nell’area del Mediterraneo e nel nostro Paese, insieme ai risultati della Conferenza Onu sull’Acqua del 2023.
“Per meglio capire cosa sia il clima – ha detto Antonio Navarra, presidente del Cmcc, il Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici – è necessaria un’osservazione sul lungo periodo” perché “il clima – ha continuato Navarra – è sì un problema globale ma, in realtà, i problemi li abbiamo a livello locale. Tutti i settori dell’economia italiana risultano impattati negativamente dai cambiamenti climatici, tuttavia le perdite maggiori vengono a determinarsi nelle reti e nella dotazione infrastrutturale del Paese, come conseguenza dell’intensificarsi dei fenomeni di dissesto idrogeologico, nell’agricoltura e nel settore turistico nei segmenti sia estivo sia invernale. Inoltre, come se non bastasse, i cambiamenti climatici aumentano la diseguaglianza economica tra regioni. Gli impatti economici negativi tendono a essere più elevati nelle aree relativamente più povere”.
A tal proposito, proprio nel progetto di ricerca della Banca d’Italia pubblicato nell’ottobre 2022 sul tema “Gli effetti del cambiamento climatico sull’economia italiana” si legge che “vi sono effetti significativi sulle misure aggregate di attività economica, come il Pil o il reddito nazionale. I dati mostrano che su scala globale la relazione stimata fra la variazione del Pil pro capite e la temperatura media annuale sarebbe crescente fino a 13°C e decrescente oltre questa soglia. Utilizzando queste stime, la contrazione del Pil pro capite globale a fine secolo potrebbe essere pari a poco meno di un quarto rispetto ad un mondo controfattuale senza cambiamento climatico. Tale variazione corrisponde ad una riduzione del tasso di crescita medio di 0,28 punti percentuali dal 2010 al 2100”.
Il rapporto illustrato a Firenze “è un avvertimento sulle conseguenze e soprattutto un monito a non stare fermi e subire – ha spiegato Erasmo D’Angelis, presidente della Fondazione Earth water agenda -. È necessaria un’azione urgente a tutela di almeno 12 milioni di italiani esposti a grave insicurezza da frane e alluvioni. Se dal 1946 al 2018 per riparare i danni sono stati spesi dallo Stato in media 4,5 miliardi di euro all’anno, la progressione è oggi impressionante con il quasi raddoppo della spesa intorno a 8 miliardi, con l’escalation nei soli ultimi 14 mesi che ha visto la sequenza di quattro grandi alluvioni che hanno provocato – ha concluso – complessivamente 45 vittime, centinaia di feriti, decine di migliaia di sfollati, e danni complessivi per oltre 15 miliardi di euro. Serve agire. L’evidenza scientifica è inequivocabile”.
Gli studi proposti dalla ricerca non si sono concentrati solo su variabili prettamente economiche, ma anche su quelle, altrettanto importanti, cui è difficile attribuire un valore monetario, come ad esempio la biodiversità e la mortalità. A questo proposito uno studio recente ha analizzato dati sulla mortalità per età a livello di provincia che coprono il 55% della popolazione del pianeta. I risultati indicano una sostanziale eterogeneità a seconda delle condizioni iniziali: in uno scenario estremo il riscaldamento globale porterebbe a salvare circa 230 vite all’anno ogni 100.000 abitanti in Norvegia e a causare 160 morti in più in Ghana. La differenza è dovuta alle diverse condizioni climatiche ed economiche di partenza dei due paesi. Benché temperature più alte possano causare significative perdite di vite umane, lo studio rivela anche che l’adattamento e il miglioramento degli standard di vita nei paesi in via di sviluppo dovrebbero riuscire a mitigare fortemente questi effetti negativi.
Sempre a proposito dell’impatto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura, appare evidente che si tratti di uno dei settori maggiormente esposti, in quanto le temperature e le precipitazioni sono input diretti nel processo produttivo. Un’analisi econometrica su mais, grano duro e uva da vino rivela che, nel caso italiano, gli effetti negativi sulla resa di queste colture si manifestano quando la temperatura sale oltre i 29°C circa per i cereali e oltre i 32°C nel caso dei vitigni. L’agricoltura è inoltre esposta a eventi estremi come le grandinate, ma sono pochi gli agricoltori italiani assicurati contro questo tipo di rischio, nonostante la presenza di sussidi statali. Va tenuto inoltre presente che l’aumento del numero di giorni in cui si riscontrano temperature elevate riduce il tasso di entrata sul mercato di nuove imprese e ne aumenta il tasso di uscita oltre a produrre effetti negativi sulla demografia e sulla performance delle imprese di tutti i comparti che sono causati anche dagli eventi idrogeologici, soprattutto alluvioni, la cui frequenza è in aumento a causa del cambiamento climatico.
La regione Mediterranea si è riscaldata e continuerà a esserlo maggiormente della media globale, particolarmente in estate. Questo vale sia per l’ambiente terrestre sia per quello marino, sia per le temperature medie sia per le ondate di calore. La regione diventerà più arida per effetto combinato della diminuzione della precipitazione e dell’aumento dell’evapotraspirazione. Allo stesso tempo in alcune aree le precipitazioni estreme aumenteranno. Il livello del mare aumenterà seguendo l’aumento del valore medio globale. L’aumento sarà irreversibile e progressivo su scale plurisecolari. La dimensione di tutti questi cambiamenti aumenta all’aumentare del livello di riscaldamento globale, ovvero più aumenta la temperatura media del pianeta, maggiori saranno gli impatti sulla regione mediterranea.
Il livello del mare nel Mediterraneo è aumentato di 1,4 mm l’anno nel corso del XX° secolo. L’incremento sarà accelerato alla fine del secolo e ci si attende continui a crescere in futuro a un tasso simile alla media globale, raggiungendo valori potenzialmente prossimi al metro nel 2100 in caso di un alto livello di emissioni. L’aumento del livello del mare continuerà nei prossimi secoli, anche nel caso le concentrazioni di gas serra si stabilizzino. L’innalzamento del livello del mare ha già un impatto sulle coste del Mediterraneo e in futuro aumenterà i rischi d’inondazioni costiere, erosione e salinizzazione.
Le coste sabbiose strette, che sono di grande valore per gli ecosistemi costieri e per il turismo, sono a rischio di scomparsa. Secondo i dati forniti dal Mase, il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, l’erosione costiera è il risultato diretto e indiretto di alterazioni del ciclo dei sedimenti, determinate da cause naturali ma soprattutto da cause antropiche: esse sono ormai note e quantificate. Gli effetti più eclatanti si osservano soprattutto dopo il manifestarsi di mareggiate, che sono di per sé fenomeni potenti, ma che dimostrano anche come sia aumentata la vulnerabilità del sistema sedimentario costiero. Infatti, su molti tratti ormai basta un singolo evento per provocare decine di metri di arretramento della linea di riva. La causa di tali fenomeni è dovuta alla scomparsa delle difese naturali costiere in tutti i tratti che risultano, come visto in queste elaborazioni, a progressivo arretramento.
Sulla base del bilancio globale tra il 1960 e il 2012, risulta che la costa italiana ha subito, lungo tratti per complessivi 1534 km (23%), un arretramento quantificabile in 92 kmq; mentre, lungo tratti complessivi di 1306 km (19%), ha registrato un avanzamento di 57 kmq. Nello specifico, la Sicilia, nel periodo 1960-2012, ha subito un arretramento pari a 13,4 Kmq a fronte di un avanzamento di 5,9 Kmq nella sua superfice e, nei tratti costieri, un arretramento pari a 365,9 km e un avanzamento di soli 187,9 km.
Secondo Ispra, inoltre, tra 644 comuni costieri italiani, quelli che presentano alti tassi di erosione al 2020 (ultimo dato disponibile), sono 54 quelli che a oggi hanno visto arretrare il loro tratto di costa di più del 50% dell’intero tratto di competenza. “Se il numero dei comuni appare limitato, a fronte di un numero totale di 644 comuni costieri – scrive Ispra -, va considerato che le percentuali riportate riguardano l’intera costa di ciascun comune, occupata anche da tratti che non sono spiagge e che non possono quindi andare in erosione, come i tratti di costa rocciosa, le foci fluviali e tutte le opere antropiche. Inoltre, le percentuali non mostrano un andamento ‘naturale’ della dinamica costiera, ma a valle di tutte le opere di difesa costiera e dei ripascimenti effettuati”.
Al di là del singolo, ma non trascurabile, effetto sulla qualità costiera sia della Sicilia sia dell’intera penisola, i tratti costieri risultati in arretramento possono rappresentare in tempi brevi zone in cui la probabilità di riduzione della fascia costiera è elevata fino a mettere potenzialmente a rischio i beni esposti, ossia centri abitati, strade e ferrovie. È atteso, inoltre, un aumento dei rischi legati alla siccità e a livello globale, in conseguenza dell’aumento combinato degli eventi meteoclimatici estremi e della popolazione esposta. Gli studi evidenziano che in tutte le regioni del mondo è atteso un aumento degli impatti legati all’acqua che vanno oltre le misure di adattamento comunemente in atto per la previsione e la riduzione dei rischi che possono avere impatti significativi sui sistemi socioeconomici e ambientali.
In relazione a periodi prolungati di siccità, emerge il rischio di una condizione irreversibile di aridità, connesso soprattutto ai livelli più elevati di riscaldamento globale. Ad esempio in Europa, questa condizione di aridità colpirebbe una porzione crescente di popolazione: con riscaldamento di 3°C sopra i livelli preindustriali, si stima che 170 milioni di persone saranno colpite da siccità estrema. Dalle analisi del lungo periodo, emergono significativi incrementi del rischio di siccità in tutti gli scenari, con un incremento particolarmente rilevante per l’area del Mediterraneo.