Effetti del referendum sulla responsabilità del magistrato - QdS

Effetti del referendum sulla responsabilità del magistrato

redazione

Effetti del referendum sulla responsabilità del magistrato

sabato 12 Febbraio 2022

Nuove riflessioni sui quesiti che saranno posti ai cittadini dopo l’eventuale via libera della Corte Costituzionale

Per come già illustrato nel QdS del 16-11-2021, l’attuale legge n. 117 del 1988 – in parte modificata sotto il Governo Renzi dalla legge n. 18 del 2015 – fa espresso divieto al privato, danneggiato da atti e comportamenti compiuti con dolo o colpa grave, di agire in giudizio direttamente contro i magistrati. Costoro, comunque, non vanno esenti di responsabilità, ma è lo Stato, che, se condannato al risarcimento, dovrà rivalersi nei loro confronti convenendoli con un apposito successivo giudizio (davanti al Tribunale).

Nei confronti degli altri dipendenti statali, invece, non sussiste un analogo divieto, con la conseguenza che al danneggiato è data la facoltà di agire contro lo Stato e il dipendente contestualmente, oppure soltanto contro lo Stato oppure solo contro il dipendente. Lo Stato, se coinvolto in giudizio e condannato, dovrà analogamente poi rivalersi contro il dipendente responsabile (davanti la Corte dei conti). Questa diversità dell’Organo giurisdizionale competente per l’azione di rivalsa in effetti non trova giustificazione e potrebbe dar luogo, a sua volta, a condizionamenti interni.

L’argomentazione formale dei proponenti il referendum circa il contrasto con l’articolo 28 della Costituzione di questo diverso trattamento rispetto agli altri dipendenti statali, appare giuridicamente debole, in quanto è giustificato dalla peculiarità della funzione giudiziaria, per come ripetutamente riconosciuto in passato dalla stessa Corte costituzionale. E invero, il Giudice delle leggi ha sempre riconosciuto la necessità di un “filtro” ad un’azione incondizionata contro i magistrati, in funzione di garanzia della stessa indipendenza ed autonomia della magistratura, che potrebbe trovarsi altrimenti spesso esposta anche ad azioni temerarie e manifestamente infondate, con compromissione della serenità di giudizio, incidente anche sulla imparzialità dell’esercizio della funzione, in analogia a quanto previsto in numerosi Paesi stranieri. D’altra parte, la persona eventualmente danneggiata da un atto illecito del magistrato in atto appare comunque adeguatamente garantito dall’azione diretta contro lo Stato, la quale consente, a sentenza di condanna ottenuta, di conseguire, tra l’altro, in tempi solleciti il risarcimento del danno, mediante il giudizio di ottemperanza, laddove è più farraginoso e di solito molto più costoso il procedimento esecutivo ordinario che dovrebbe attivarsi contro il magistrato condannato.

In realtà l’impulso al referendum nasce da uno stato di diffusa insoddisfazione verso il “Pianeta Giustizia”, che coinvolge in un unico fascio: l’inadeguatezza delle norme penali (in parte non corrispondenti al comune sentire riguardo a comportamenti delittuosi, che, seppur considerati dalle leggi di scarsa rilevanza, di fatto creano in questo momento grande allarme sociale: ad esempio, furti scippi ed occupazioni abusive di case, piccoli reati contro i beni e le persone); la lentezza della giustizia (in parte da attribuire alla farraginosità delle norme processuali ed all’inadeguatezza delle strutture e delle risorse); la governance della magistratura (talora più attenta a condizionamenti di parte che non al buon funzionamento della giustizia: v. ad esempio, il c.d. scandalo Palamara, dal quale è emerso un sistema correntizio perverso, che è stato seguito però con scarso interesse dalla Politica e dai Mass media); infine, la sciatteria e incompetenza o la malevolenza e partigianeria di taluni magistrati.

Oggettivamente, i casi di malagiustizia imputabili solo ai magistrati costituiscono una percentuale di scarsa entità, se rapportati al loro numero ed a quello sterminato degli atti giudiziari compiuti annualmente in tutta Italia (sicuramente uno dei Paesi più litigiosi al mondo, anche per colpa delle centinaia di leggi farraginose in vigore), ma tuttavia destano (e giustamente) un grande clamore, anche perché raramente alla notizia dello scandalo segue un salutare e tempestivo intervento da parte degli Organi di governance. Con il referendum i proponenti ritengono di porre rimedio ai casi di malagiustizia, con il consentire alla persona danneggiata di agire direttamente ad azione risarcitoria direttamente contro il magistrato responsabile.

Per conseguire tale finalità, il referendum è impostato “chirurgicamente” con tagli abrogativi di singole parole della legge n. 117 del 1988 (per la cui comprensione occorrerebbe francamente avere anche avere una notevole dimestichezza con l’interpretazione delle norme di legge). Con questi tagli si giunge allo scopo dell’azione diretta contro il magistrato, ma con disarmonie tra le norme ed a totale travolgimento della disciplina voluta dal legislatore, finalizzata alla creazione di un “filtro”, in sostituzione di quello abolito con il referendum del 1987. I proponenti (ed i mass media) si sono sentiti trionfanti alla notizia della decisione favorevole della cassazione; ma lo scoglio rappresentato dal sindacato della Corte costituzionale potrebbe presentarsi di ben altro spessore. Infatti, questa modalità di intervento referendario mediante tagli di singoli termini indusse la Corte Costituzionale nel 2000 (sentenza n. 38) a denegare l’ammissibilità di un analogo referendum, con la considerazione che, in tal modo, si attuava un totale travolgimento della disciplina positiva stabilita dal legislatore, tentando di far conseguire di fatto ad un referendum “abrogativo”, l’unico consentito dalla nostra Costituzione, l’effetto proprio di un referendum propositivo (analogo ai famosi plebiscita romani), con sostituzione in toto dell’Istituto voluto dal legislatore con uno del tutto diverso, così invadendosi la potestà legislativa spettante nel nostro Ordinamento solo al Parlamento (anche questo sovrano, con i paletti posti dalla Costituzione e, adesso, anche della Normativa comunitaria).

Sotto tale profilo, anche l’attuale referendum dovrebbe essere destinato alla bocciatura; ma talune sentenze (innovative) di questi ultimi anni ci insegnano che è tutt’altro che scontato che il Giudice delle Leggi di oggi vada a confermare l’orientamento espresso dal suo predecessore del 2000.

I POSSIBILI SCENARI GIURIDICO-ISTITUZIONALI

Per il caso che la Corte costituzionale ritenga ammissibile il referendum sulla responsabilità del magistrato e questo abbia esito positivo, occorre chiedersi quale scenario giuridico-istituzionale sia da prospettarsi. Cadendo la norma sul filtro attuale, costituito dal divieto di azione contro il magistrato, questi, al compimento di un qualsiasi atto giudiziario, anche minimo e di qualunque segno sia, sa che potrà sempre seguire un’immediata azione contro di lui da parte del soggetto che sia inquisito o condannato, in un procedimento penale, oppure soccombente in altre tipologie di giudizio, con esposizione ad una miriade di giudizi per responsabilità, di numero tanto maggiore quanto più egli sia solerte nelle sue decisioni.

Infatti – per come già illustrato nel QdS del 16-11-2021mentre per la persona comune l’esposizione a un giudizio risarcitorio è lontana ed eventuale, e solitamente collegata alla patologia di un rapporto, non è così per il magistrato, per quanto onesto e capace sia, e per quanto possano essere limpide e trasparenti de sue decisioni. Ed è anche ben maggiore anche rispetto agli altri pubblici dipendenti, considerato che in quasi tutti i suoi atti (tranne in quelli di volontaria giurisdizione) ci potrà essere un inquisito o un soccombente, che, a torto od a ragione, riterrà di avere subito un’ingiustizia. Con l’accoglimento del referendum all’impegno e diligenza, che il magistrato doverosamente ha l’obbligo di prestare, si aggiunge perciò questa non indifferente preoccupazione.

Con questa spada di Damocle, il magistrato sarà indotto alla massima prudenza, con defatiganti verifiche e riverifiche delle carte processuali, delle norme da applicare e con una pignolesca attenzione alle Disposizioni europee ed alla Giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria. Ciò inciderà sicuramente sulla durata dei processi e non saranno sufficienti norme “draconiane”, che avranno la stessa efficacia delle “Grida” di manzoniana memoria, ad accelerare le decisioni. La prima deleteria conseguenza sarà un sicuro rallentamento della macchina della Giustizia ed una lungaggine dei processi, con esposizione – maggiore di oggi – dello Stato al rischio di sanzioni da parte dell’Unione Europea e della Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU). La sola preoccupazione di essere trascinato in giudizio direttamente procurerà al magistrato ulteriori incertezze e titubanze e la prudenza potrebbe spingerlo ad adagiarsi nel migliore dei casi ad una giurisprudenza consolidata, anche se meno attenta ad esigenze effettive di giustizia, oppure tra diverse soluzioni tutte possibili (il diritto nel concreto non è sempre tutto bianco o nero, ma con zone grigie), a scegliere quella che meno lo esporrebbe a strascichi di possibili azioni giudiziarie successive da parte del soccombente, incidendo anche sulla sua serenità di giudizio e sull’imparzialità delle sue decisioni.

È concreto, quindi, il rischio che si vada incontro ad un’amministrazione della giustizia pavida, timorosa e meno aperta alle esigenze di giustizia, nonché più lenta ed inefficace di quanto non lo sia adesso. Pensare che il referendum proposto sia un toccasana per rimediare alla cosiddetta “mala giustizia” più che una pia illusione appare un vero e proprio abbaglio, laddove ben altri devono essere gli strumenti (soprattutto di tipo normativo) da approntare, sia per avere una giustizia più veloce ed efficiente sia per impedire il verificarsi di certi fenomeni scandalosi che hanno indotto i cittadini esasperati a sottoscrivere la richiesta di referendum. Il rimedio proposto appare idoneo ad arrecare solo danni gravissimi alla Giustizia.

In effetti, in questi anni sono venuti a mancare un efficace controllo e un funzionamento adeguato dello strumento disciplinare, che a volte è stato utilizzato più per risolvere faide interne che non in funzione della Giustizia. Tutto ciò è noto. Eppure, a seguito del cosiddetto scandalo “Palamara” – consentito in gran parte dal Sistema giuridico in atto (scelta e composizione dei membri) del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) e dal funzionamento del CSM, che sovrintende all’organizzazione degli uffici giudiziari e dei magistrati e, quindi, al conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, nonché ai trasferimenti ed ai procedimenti disciplinari – ci si limitò ad inquisire e ad espungere solo taluni membri del CSM e qualche magistrato, farisaicamente indicati come mele merce.

Occorre, invece una seria riforma legislativa riguardante sia le modalità di scelta dei membri del CSM e la sua stessa composizione (il che richiede una comunque lieve modifica della Costituzione), sia il conferimento degli incarichi di direzione e la materia degli illeciti disciplinari. In atto la magna pars riguardo all’elezione dei membri togati del CSM è gestita a livello sindacale dalle Correnti; queste, poi, per il tramite dell’Associazione Nazionale Magistrati che le coordina, co-gestiscono con la componente politica la parte più significativa dell’attività del CSM. Ed è sufficiente leggere al riguardo il fortunato libro (che non risulta essere stato oggetto di sequestro penale su richiesta di querelanti o denuncianti) scritto a quattro mani da Palamara e da un noto giornalista, per constatare che i provvedimenti in materia di incarichi e di procedimenti disciplinari si piegano – non infrequentemente – ad esigenze di natura clientelare e di bottega, soprattutto nel campo del conferimento degli incarichi (dalla vicenda “Palamara” emerge che il bubbone è scoppiato dal conferimento di incarichi direttivi in procure strategiche), nei procedimenti disciplinari e, in misura minore, nei trasferimenti (lo stesso Palamara ammette che il suo trasferimento presso la Procura di Roma fu attuato al di fuori degli schemi ufficiali).

Il sistema correntizio ha portato alla cogestione del “Pianeta Giustizia” da parte della Politica e da una parte della Magistratura – che conta -, così pervenendosi a scelte operative di natura clientelare sia per quanto riguarda il conferimento degli incarichi sia in ordine ai procedimenti disciplinari, che possono essere velocissimi (così per Palamara) o procedere a passo di lumaca per anni, ed anche per lustri, il che reca un discredito enorme all’intera Magistratura, seppur i comportamenti siano riferibili solo ad una modesta parte di essa. Da referendum interni indetti tra i magistrati è emerso che una elevata percentuale di essi è nettamente contraria al metodo elettorale per la scelta dei membri togati del CSM, ritenendo preferibile il sorteggio per l’individuazione dei componenti del loro Organo di autogoverno, al fine di eliminare in radice l’attuale sistema clientelare, derivante dal collegamento organico tra membri del CSM e Correnti e tra queste ed i politici.

È vero che occorre una modifica dell’articolo 105 della Costituzione, ma questo non è un serio problema; ma la Politica – anche quella dell’attuale Governo – finora si è mostrata sorda a questa esigenza, ampiamente sentita non solo dai magistrati, ma anche dall’opinione pubblica. È giusto che ci sia un Organo di autogoverno, ad evitare influenze e interferenze di natura politica nella gestione della Giustizia, ma questo deve essere effettivamente indipendente dalla Politica e dalle Correnti, spesso in inciucio tra loro; e per essere tale un buon rimedio sarebbe, appunto, un sorteggio (ormai di agevole attuazione, grazie all’informatica, con un modesto algoritmo), il che renderebbe più difficile il collegamento, in rapporti di forza, tra CSM e Correnti (queste spesso referenti della Politica), Correnti che dovrebbero tornare alla loro funzione originaria di tutela sindacale dei magistrati ordinari e di propulsori di riforme per modifiche migliorative delle Norme di procedura.

Altra nota dolente è il conferimento degli incarichi. L’attuale disciplina, riguardante la valutazione dei magistrati ed il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi ha dilatato enormemente la discrezionalità dell’Organo di autogoverno e del potere che spetta, a cascata, alla dirigenza, a livello locale, della Magistratura. Occorrerebbe mettere mano ad una riforma che preveda norme ben precise, in modo che siano evitati conferimenti di incarichi in modo semplicemente scandaloso, come ad esempio quella di un magistrato, che dopo avere svolto soltanto le funzioni di pretore e poi, per parecchi anni, quelle di deputato, fu nominato presidente di un tribunale del Nord Italia, scavalcando numerosi colleghi che avevano dedicato tutto il loro tempo all’espletamento dei loro compiti giudiziari.

Grandissima nota dolente è quella dei procedimenti disciplinari, i cui tempi di decisione, a discrezione, possono essere – per come detto – velocissimi oppure dilatati per anni, in attesa che l’opinione pubblica dimentichi le vicende sottese ai procedimenti instaurati nei momenti caldi di una vicenda. La rimozione dall’Ordine giudiziario (ci si riferisce in particolare a quelli dei magistrati ordinari) è poi prevista – salvo che sia intervenuta una condanna penale – soltanto in caso di percezione di benefici dagli indagati o imputati o parti in giudizi civili o dai loro difensori, laddove vi sono omissioni o comportamenti altrettanto gravi che meriterebbero di essere sanzionati con la rimozione. Anche qui deve necessariamente intervenire il legislatore per ampliare i casi (e senza che occorra scomodare la Costituzione). Il procedimento si conclude (quando si conclude) con una sentenza dell’Organo di autogoverno; nel caso dei magistrati ordinari con una “sentenza” del CSM, impugnabile davanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, quindi, in tutto davanti ad un Organo dello stesso Ordine giudiziario.

E a questo proposito s’innesta l’altro punctum dolens, costituito, appunto, dalla cosiddetta giurisdizione domestica, per cui è lo stesso Ordine giudiziario, cui appartiene il magistrato, a procedere prima all’istruttoria dei procedimenti disciplinari e poi alla decisione finale sugli stessi procedimenti. Questa modalità, com’è intuibile – a seconda dei casi – può costituire “privilegio” o “disgrazia” per l’inquisito. Per la verità, la giurisdizione domestica è stata ritenuta legittima dalla Corte costituzionale; ma ciò non significa che sia da ritenere, per i magistrati, una prerogativa di rango costituzionale. Infatti, malgrado che per i magistrati ordinari si faccia di solito riferimento all’articolo 105 della Costituzione, va rilevato che la disposizione, per quanto riguarda i procedimenti disciplinari dei magistrati, stabilisce che al CSM spettano (anche) i “provvedimenti disciplinari”, cioè gli atti amministrativi che concludono il procedimento con la sanzione o il proscioglimento (in tutte le amministrazioni pubbliche, ed anche nelle aziende private, il procedimento disciplinare si conclude con un atto dell’ente di appartenenza del dipendente, a sua volta impugnabile davanti al giudice), ma non prevede che la “pronuncia giurisdizionale”, e cioè la sentenza, che chiude giudizialmente il procedimento, debba necessariamente essere di spettanza del CSM.

Per i magistrati ordinari, come per le altre giurisdizioni, amministrativa e contabile, la giurisdizione domestica è prevista in sostanza solo da leggi ordinarie. E, poiché, sono frequenti le lagnanze circa il non sempre corretto uso della giurisdizione domestica, ben potrebbe intervenire il legislatore ordinario per prevedere che la giurisdizione sui magistrati sia affidata ad Ordine giudiziario diverso da quello di appartenenza. Ciò farebbe venir meno i tanti sospetti che, a volte, si annidano dietro decisioni scarsamente comprensibili su procedimenti disciplinari. Una giurisdizione non domestica, in fine dei conti, garantirebbe meglio anche l’indipendenza del magistrato da condizionamenti interni.

Da taluno è stato proposto che la giurisdizione sui procedimenti disciplinari dei magistrati sia affidata alla Corte costituzionale, ma ciò finirebbe per ingolfarne ed anche travalicarne i compiti. Ad avviso del sottoscritto nulla impedirebbe al legislatore – tenuto conto che la Giustizia è ripartita tra diverse “Magistrature” – di assegnare la giurisdizione sui magistrati ad una branca diversa della Giustizia (ad esempio quella dei magistrati ordinari alla magistratura amministrativa, quella dei magistrati amministrativi alla Corte di conti e quella dei magistrati contabili alla magistratura ordinaria), in modo da evitare sia condizionamenti interni sia azioni reciproche di connivenza (do ut des) o di disturbo reciproco.

In conclusione, è viva e diffusa l’esigenza che sia tempestivamente ed efficacemente sanzionato il magistrato, il quale per incompetenza, sciatteria, malevolenza o partigianeria compia atti illeciti, e che siano ampliati anche i casi di rimozione, ma la via non è questo referendum idoneo ad arrecare danni ben maggiori alla Giustizia di quelli ai quali vorrebbe porre rimedio, bensì quello naturale di riforme normative adeguate da parte del legislatore, idonee a far venir meno i guasti attuali, del tipo di quelle in queste riflessioni delineate.

Ma la Politica lo vorrà?

Diegus
Libero Giurista

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