Giangiacomo Montalto, il ricordo della figlia 40 anni dopo l'omicidio

“Molto più di un padre”, una vita stroncata dalla mafia: il ricordo del magistrato Ciaccio Montalto

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“Molto più di un padre”, una vita stroncata dalla mafia: il ricordo del magistrato Ciaccio Montalto

Roberto Greco  |
mercoledì 25 Gennaio 2023

La passione per la musica e il mare e la vita stroncata dalla mafia: il ricordo del magistrato Giangiacomo Montalto, intervista alla figlia.

“Un padre? È stato molto di più. Sempre affettuoso, è stato il nostro compagno di giochi e anche quello che prendeva sempre le nostre parti”. Inizia così il racconto di Mariene Ciaccio Montalto, la figlia del magistrato Giangiacomo, la cui vicenda umana e professionale si concluse nella notte del 25 gennaio 1983, in una stradina di Valderice dove risiedeva da qualche tempo.

Sulla scena del delitto furono trovati ben 23 bossoli. Il magistrato, poco prima della sua morte, stava predisponendo diversi ordini di arresto nei confronti di persone insospettabili e notabili dell’imprenditoria, stava indagando anche su alcuni soggetti sospettati di appartenere a Cosa nostra che operavano in Toscana ed erano coinvolti in alcuni fatti di sangue avvenuti nelle vicinanze di Firenze.

In più, il magistrato Montalto si stava occupando d’indagini legate ad affari illeciti e episodi di corruzione che vedevano coinvolte alcune famiglie mafiose del trapanese e uomini delle istituzioni, tra cui alcuni suoi colleghi, di un grosso traffico internazionale di armi e droga e della presunta esistenza di una grande raffineria di droga nel territorio trapanese, raffineria che fu poi scoperta nella zona di Alcamo nella primavera del 1985 e che rispondeva agli ordini di Pippo Calò, il “cassiere di Cosa Nostra”.

Giangiacomo Montalto, il ricordo della figlia a 40 anni dall’omicidio

Com’era Giangiacomo Montalto come padre?

“I miei genitori erano stati educati ‘alla vecchia maniera’. Non era previsto un cosiddetto rapporto di confidenza con i genitori. Forse proprio per il tipo di educazione che possedeva, papà esprimeva il suo bisogno di affetto e anche per questo c’era sempre vicino non solo come padre ma anche come amico».

Un regalo di papà che ancora ricorda?
“Regali tanti. Ricordo che, in un’occasione, portò Elena, mia sorella, e me in un negozio di giocattoli. Vedemmo una macchina per fare i timbri, oggetto che piaceva a tutte e due. La comprò e la regalò a mia sorella. Quando si rese conto della mia delusione me andrò a comprare un’altra identica per me. Capii che non voleva trattarci in maniera diseguale, anche per trasmetterci quanto per lui fossimo importanti”.

Le passioni per la musica e il mare

Aveva 12 anni, in quel 1983 quando Giangiacomo Montalto venne ucciso. Che cosa ha voluto dire l’assenza del padre per una bambina della Sua età?
“Una delle passioni di mio padre era la musica classica. Io frequentai, sin dalle scuole medie, il conservatorio. Ogni tanto papà, la sera, si chiudeva nel suo studio e ascoltava brani di compositori illustri, Beethoven, Verdi, Puccini. Capitava che, spesso, mi chiamasse per ascoltare assieme questo o quel brano. Papà metteva in evidenza il ruolo degli strumenti, commentava assieme a me quanto stavamo ascoltando. È grazie alla passione della musica che mi ha trasmesso che ho deciso quella che sarebbe poi diventata non solo la mia passione. Mi sono diplomata un violoncello. Ricordo che alla fine del mio primo anno di studio partecipò al saggio di fine d’anno. Arrivò attrezzato come un fotoreporter e scatto moltissime foto, foto che conservo ancora”.

“Quando è venuto a mancare, per me non è mancato solo il padre e l’amico ma il supporto nella strada che stavo percorrendo. Tutti gli episodi successivi, il primo concerto, il diploma, il mio primo concerto da solista sono stati dei momenti in cui c’era una sedia vuota, la sua. Me lo sono sempre immaginato vicino, anche se lo era fisicamente. Anche nel periodo adolescenziale, quello in cui i rapporti con la famiglia diventano più complicati, mi è mancato, perché era un grande alleato”.

Un’altra grande passione di suo papà è stato il mare. Il magistrato Giangiacomo Montalto condivideva con voi questa passione?
“Aveva acquistato un piccolo gozzo a motore. Aveva deciso di insegnarmi a nuotare. Lo ricordo come se fosse ieri. Avevo tre anni e, all’improvviso, mi buttò fuori bordo. Dopo i primi istanti di smarrimento mi resi conto che stavo galleggiando. Alzai lo sguardo e vidi che lui era lì a vigilarmi, pronto ad intervenire, se ce ne fosse stato bisogno. Papà amava la pesca subacquea. Andavamo spesso a Marettimo. A Calabianca aveva individuato una grotta nascosta che portava a una sorta di piscina illuminata dall’alto. Per uscire era necessario percorrere un cunicolo che era sott’acqua, la percorrevamo assieme mano nella mano. Quando andavamo in immersione, lui portava con sé il fucile subacqueo. Mi teneva la mano mentre ci muovevamo. La lasciava quando aveva individuato un polpo o un pesce per potersi immergere ulteriormente e lanciare l’arpione del fucile. La cosa che più mi manca è la sua mano”.

Quanto ci deve mancare un magistrato come suo padre, Giangiacomo Ciaccio Montalto?
“Tanto. Nel tempo ho scoperto la sua figura professionale. Era una persona onesta, incorruttibile. Un uomo che ha fatto il suo dovere fino in fondo. E non parlo solo dei suoi colleghi, parlo di tutti noi. Ognuno di noi dovrebbe agire come ha fatto lui, ragionare come faceva lui, senza paura di dire e fare ciò che è giusto”.

L’ultimo periodo di vita del magistrato

Come ha vissuto l’ultimo periodo assieme?
“Aveva ricevuto molte telefonate strane. Si trattava principalmente di telefonate anonime, telefonate che venivano chiuse da chi aveva chiamato. Questo creò un certo disagio in famiglia. Una volta risposi io, al telefono. In quell’occasione una voce maschile m’invitò a incontrarci. Pensai a uno scherzo di qualche compagno. Papà era a casa, in quel momento. Sentii il rumore della cornetta dell’altro apparecchio che avevamo. Forse attirato dalle mie continue richieste di chi ci fosse dall’atra parte dell’apparecchio, si era messo ad ascoltare. Mi raggiunse subito. Forse, da quel momento, papà decise di allontanarsi lentamente dalla famiglia tant’è che andò a vivere da solo fuori città, a Valderice. Mi disse che aveva fatto richiesta di trasferimento ma io, in quel momento, lo vidi come un ulteriore distacco tra noi. Oggi capisco che, invece, era un sistema per proteggerci, per tenerci lontano da minacce, pericoli e ritorsioni”.

Ritiene che suo padre avesse chiaro il rischio che stava correndo in quel periodo, visto che aveva rifiutato la scorta?
“Ne ho parlato diverse volte con mia madre. Lei diceva che forse aveva sottovalutato le minacce. In realtà, anni dopo, ne parlai con Mario Almerighi, suo amico e collega che mi diede la massima disponibilità a parlare di mio padre. In quell’occasione mi disse che papà gli parlo in diverse occasioni di aver ricevuto minacce serie, compresa una croce nera disegnata sulla sua auto. Mi disse anche che papà gli confidò di aver rifiutato la scorta per non esporre a rischio gli agenti, mariti, padri, fratelli che non meritavano di morire. In quell’occasione gli disse che “quando la mafia vuole uccidere uccide, a che pro mettere a rischio la vita di altri?'”.

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