Coronavirus, in Giappone si batte anche con la tecnologia e... i miti - QdS

Coronavirus, in Giappone si batte anche con la tecnologia e… i miti

redazione

Coronavirus, in Giappone si batte anche con la tecnologia e… i miti

sabato 24 Ottobre 2020

Dai pesci digitali per rispettare la distanza di sicurezza alla creazione di leggende per combattere la paura della malattia. La sirena Amabie, “Se ci sarà un’epidemia, mostra la mia immagine e i malati guariranno”

TOKYO – Il Giappone, com’è noto, è il Paese in cui ogni indicazione, ogni divieto, ogni suggerimento viene messo per iscritto. Andando in metropolitana, per esempio, colpisce la proliferazione di cartelli di avviso che indicano anche le regole più intuitive e ovvie. Così alcuni produttori di elettronica nipponici stanno mettendo a punto sistemi per suggerire in maniera visiva alle persone la distanza da tenere rispetto agli altri in luoghi affollati, come possono essere stazioni o centri commerciali.

Hitachi – come raccontato dalla televisione pubblica nipponica Nhk in un suo servizio – ha creato un’apparecchiatura che rileva attraverso sensori la presenza di soggetti e traccia un cerchio largo due metri, con pesci che nuotano lungo la circonferenza. Se due persone si trovano all’interno dei cerchi, quindi a distanza pericolosa, il cerchio cambia colore e il pesce ne esce fuori. Qualcosa di simile è entrata già in commercio da aprile, prodotto dalla Mitsubishi Electric: l’apparecchiatura proietta un’animazione sul pavimento per ricordare alle persone di controllare se ci sia un assembramento nel luogo in cui si sta per entrare o ricorda di entrare in piccoli gruppi negli ascensori. Un’altra compagnia, la Panasonic, ha invece studiato un’apparecchiatura che avverte le persone se in uno spazio si crea un assembramento pericoloso, cambiando il colore dell’illuminazione. È studiata in particolare per i teatri o per gli stadi.

Il Giappone, da un punto di vista sanitario, è riuscito a evitare la sorte peggiore toccata ad altri Paesi, non facendo neanche un lockdown rigido, grazie a un mix di tempestività nella caccia ai cluster e grazie soprattutto a una capacità culturalmente consolidata della popolazione di avvertire il pericolo e di porvi in qualche modo rimedio tagliando i contatti. Se guardiamo la storia epidemiologica dell’Arcipelago, troviamo in effetti pestilenze incredibilmente impattanti, che hanno avuto un’influenza tutt’altro che secondaria sulle evoluzioni politiche, istituzionali, economiche del Sol Levante.

Nel Giappone classico ce ne sono state almeno una dozzina degne di nota. In quello medievale, altrettante. Influenze, morbillo, dissenteria, poi la tubercolosi hanno mietuto milioni di vittime, cambiando profondamente la visione del mondo dei giapponesi. Ma la peggiore pestilenza che ha attraversato l’Arcipelago è quello che qualcuno ha chiamato “ministro della morte” dell’antichità, un male che solo in epoca contemporanea siamo riusciti a domare: il vaiolo.

Soprattutto va ricordata l’epidemia del 735-737, conosciuta come Grande epidemia di vaiolo dell’era Tenpyo. In quell’occasione si calcola che un terzo della popolazione nipponica perì. Fu colpita anche la corte e morirono molti esponenti del clan Fujiwara, allora al potere. Così l’imperatore dell’epoca, Shomu, volle mettere il Giappone sotto la protezione del Buddha e fece costruire nella capitale, Nara, il tempio Todaiji e, al suo interno, il Daibutsu, il Grande Buddha bronzeo, ancora oggi una delle meraviglie del Giappone per costruire la quale si diede quasi fondo alle casse del regno. Il vaiolo, a sua volta, venne divinizzato col nome di Hoshoshin, sostanzialmente dandogli la figura di un demone tornato sulla terra per vendicarsi di torti subiti. Per cercare di pacificarlo, venivano praticati riti ai kami, gli dei della tradizione shintoista e balli che ricordano un po’ il ballo del drago di tradizione cinese. A colorare questi rituali era il rosso perché si riteneva che avesse un influsso positivo sul decorso della malattia.

L’altra violenta epidemia che colpì il Giappone fu l’influenza Spagnola del 1918/1919. Le stime dei decessi furono di 257/481mila morti, anche se ci sono studi che parlano di due milioni di morti. Si trattava di un virus di tipo H1n1, influenzale, non tanto dissimile da quello che ci ha investiti quest’anno. Le misure che furono prese all’epoca sono più o meno quelle di oggi: stare il più possibile a casa, indossare mascherine, evitare i luoghi affollati.

La personificazione e la creazione di leggende folkloriche è una costante di tutte queste epidemie. È come se i giapponesi sentissero il bisogno di avere un riscontro visivo del pericolo e di ciò che bisogna fare per scamparlo. Anche nel caso del Covid-19 è andata così. Al di là degli strumenti sviluppati dalle aziende hi-tech, per esempio, è riapparso prepotentemente un personaggio yokai (mostro) chiamato Amabie. Amabie è una specie di sirena, un po’ donna e un po’ pesce, che secondo la leggenda apparve nel 1846 a un funzionario della prefettura di Kumamoto, inviato a controllare il perché di uno strano luccichio sul mare. Questi pescò la sirena, la quale gli disse: “Se ci sarà un’epidemia, mostra la mia immagine e i malati guariranno”. Così sui social network, all’esplodere di Covid-19, in molti si affrettarono a condividere questa figura, spesso ridisegnata in maniera carina per renderla più accettabile come talismano virtuale.

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