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La difficile relazione tra profitto e sviluppo

La difficile relazione tra profitto e sviluppo
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Il profitto non è sufficiente per lo sviluppo

continua dal QdS del 7/5/2025

Naturalmente questa concezione non è facile da comprendere e da accettare. Anche i nostri allievi fecero resistenza, una resistenza molto apprezzabile. Fu necessario analizzare a fondo le componenti di questa concezione e confrontarla, concretamente, con i vari casi che andavamo sviluppando. Due dei passaggi principali di questo approfondimento furono il dibattito sulla complessità del profitto e sui tre processi di accumulazione.

Sul primo tema, uno spunto importante mi fu offerto da un libro-intervista di Cesare Romiti uscito in concomitanza con la parte finale del corso ’87-’88, un libro che, giustamente, suscitò molta attenzione, anche nei nostri allievi. Poiché in alcuni passaggi importanti (come quello del tema del profitto e della responsabilità del management) emergeva dal libro una posizione nettamente diversa dalla nostra, fu necessario ed utile discuterne in aula.

I concetti di Romiti che misi in discussione erano i seguenti: “Penso – disse Romiti – che quando uno ha la responsabilità del comando di un’azienda, deve preoccuparsi degli interessi dell’azienda e soltanto di quelli. In altre parole, deve avere un obiettivo che viene prima di qualsiasi altro: far funzionare l’azienda al meglio e farle conquistare il maggior profitto possibile. Dei riflessi sulla società ci si deve preoccupare soprattutto in altre sedi. È una parte che spetta al sindacato, per esempio. Il sindacato può anche scendere in campo per limitare eventuali miei eccessi “aziendalistici”, ma è una parte che tocca a lui, non a me: io non posso limitarmi da solo, sarebbe contrario alla etica di dirigente”.

E le mie osservazioni critiche furono queste: “Io posso capire che queste parole siano ispirate dalla paura di un ritorno a confusioni e irresponsabilità che, dietro il paravento di una finta socialità, avevano inquinato tanta parte del nostro paese. Ma nei termini in cui sono state formulate esse non possono essere accettate. Se il management non è capace di mediare e di bilanciare i diversi interessi, privati e pubblici, che si intersecano in quel nodo complesso che è l’impresa; se esclude dalla sua capacità e addirittura dalla sua etica l’evitare eccessi; se quello che avviene intorno all’azienda è solo affare degli altri; se il sindacato è, per definizione, escluso dal collaborare al buon funzionamento dell’azienda, allora tutto ciò vuol dire: istituzionalizzare un puro schema conflittuale. Allora tutto ciò vuol dire ritornare indietro, annullando una delle più importanti conquiste collettive degli ultimi dieci anni. Vuol dire istituzionalizzare la guerra civile. E il manager diventa poco più che un uomo d’armi. Allora vuol dire che efficienza e responsabilità si escludono per definizione, proprio come affermano quelle concezioni culturali di stampo pre-industriale che, faticosamente, cerchiamo di superare. Allora vuol dire che quell’evoluzione della concezione dell’impresa verso un organismo funzionale allo sviluppo e, come tale, meritevole di conoscenza e di rispetto, nella sua autonomia, da parte di tutte le componenti sociali, che cerchiamo di insegnarvi, è un imbroglio. Ma imbroglio non è”.

La concezione che vede come unico obiettivo dell’impresa la massimizzazione del profitto è attraente nella sua capacità di semplificazione. Ma questo è il vero imbroglio perché semplifica in modo affascinante ma improprio una situazione e un tema molto complessi. Perché è vero che senza profitto non c’è sviluppo duraturo né in un’economia capitalista, né in un’economia collettivizzata. Ma il profitto non è sufficiente per lo sviluppo.

continua…