Oltre 217 miliardi di euro di economia non osservata nel 2023, pari al 10,2% del Pil nazionale. L’Italia si scopre sempre più “sommersa”, con un incremento di 15,1 miliardi di euro in un solo anno e un aumento del 5% dei lavoratori irregolari, oggi stimati in oltre 3 milioni di unità. E il fenomeno del lavoro nero non arretra neanche in Sicilia, dove la Cgil parla perfino di “emergenza strutturale”, frutto di precariato e fragilità del tessuto economico ben note.
A rivelare il quadro regionale e nazionale sul fenomeno è l’ultimo rapporto Istat “Economia non osservata nei conti nazionali – Anni 2020-2023”, pubblicato negli scorsi giorni, che fotografa una crescita del sommerso più rapida di quella del Pil stesso (+7,5% contro +7,2%).
Lavoro nero in Sicilia e nel resto d’Italia, i dati ISTAT
Dalle statistiche emerge un Paese spaccato ancora a metà: da un lato si evidenzia la ripresa dei consumi e dell’occupazione dopo il crollo pandemico; dall’altro, la fragilità strutturale di un mercato del lavoro che continua a produrre sacche di irregolarità, precarietà strutturale, evasione e lavoro nero, soprattutto nei servizi alla persona, nel commercio e nelle costruzioni.
L’economia non osservata in Italia comprende due grandi aree: il sommerso economico, cioè le attività legali ma non dichiarate al fisco o alla previdenza, e l’economia illegale, che include la produzione e lo scambio di beni e servizi vietati. Nel 2023, il valore aggiunto complessivo di questa economia parallela ha raggiunto 217,5 miliardi di euro, in crescita rispetto ai 202,4 miliardi del 2022.
Di questi, 197,6 miliardi derivano da attività sommerse, mentre 19,9 miliardi provengono da attività illegali. L’incidenza complessiva sul Pil è addirittura del 10,2%, in lieve aumento rispetto al 10,1% registrato nel 2022. Le componenti principali del sommerso restano la sotto-dichiarazione dei redditi, che pesa per 108,2 miliardi, e l’utilizzo di lavoro irregolare, che raggiunge 77,2 miliardi.
Le restanti quote, legate a mance, fitti non dichiarati e riconciliazioni statistiche, ammontano a 12,2 miliardi, mentre le attività illegali, come traffico di droga, prostituzione e contrabbando, rappresentano circa lo 0,9% del Pil. Secondo l’Istat, nel 2023 si contano 3.132.000 unità di lavoratori irregolari, in aumento di 145 mila rispetto all’anno precedente.
I settori più esposti all’irregolarità
Il tasso di irregolarità complessivo, cioè la quota di lavoro non regolare sul totale, è salita al 12,7%, interrompendo un trend di cinque anni di riduzione. La dinamica mostra una crescita più marcata del lavoro non regolare (+4,9%) rispetto a quello regolare (+2,4%), con un aumento analogo per dipendenti e autonomi.
Il fenomeno non è distribuito in modo uniforme tra i settori. Nei servizi alla persona, che includono lavoro domestico, assistenza e cura, quasi un lavoratore su due opera in nero o in forme di grigio, con un’incidenza del 32,4% sul valore aggiunto del comparto. Nel commercio, nei trasporti, negli alloggi e nella ristorazione, l’incidenza del sommerso raggiunge il 18,8%, mentre nelle costruzioni arriva al 16,5% e in agricoltura al 14,9%.
Nei settori industriali, invece, la diffusione del fenomeno è più contenuta, oscillando tra lo 0,9% e il 2,8%. Dopo il boom post-pandemico legato ai bonus edilizi, il comparto delle costruzioni ha registrato un aumento del tasso di irregolarità, arrivato al 12,8%. Nel turismo, invece, l’economia stagionale e la microimprenditorialità spingono il sommerso a livelli medi del 15%, con punte più alte nei mesi estivi.
Secondo i dati Inps, circa il 20% dei rapporti di lavoro stagionali attivati nel Mezzogiorno presenta irregolarità contributive o contrattuali. E poi il valore dell’economia criminale, che è cresciuto del 4,4% medio annuo dal 2020, sottolineando un disagio crescente tra la popolazione meno abbiente.
Sebbene l’Istat non pubblichi dati territoriali nel rapporto 2023, i dati del Ministero del Lavoro e dell’Inps evidenziano che il Sud e le Isole presentano tassi di irregolarità superiori al 16%, con punte del 20% in agricoltura e nel turismo stagionale. Nel Centro Italia la media si attesta intorno al 10%, mentre al Nord resta sotto l’8%. Il Mezzogiorno concentra quasi il 40% dei lavoratori irregolari nazionali: qui la fragilità economica alimenta il ricorso al sommerso.
Il caso Sicilia
In Sicilia, il lavoro nero rappresenta una costante strutturale. Secondo le ultime rilevazioni Istat e Inps, circa un lavoratore su cinque nell’Isola è irregolare. Il tasso stimato di lavoro non regolare raggiunge il 18,6%, quasi sei punti in più rispetto alla media nazionale del 12,7%. Il valore dell’economia sommersa regionale supera i 9 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil siciliano.
Tra evasione fiscale, lavoro nero e attività informali, la Sicilia perde ogni anno circa 2,5 miliardi di euro di gettito tra contributi e imposte, secondo la Banca d’Italia. Nei dati del Ministero del Lavoro, il tasso di non regolarità nelle nuove assunzioni nel 2023 raggiunge il 22%, con picchi del 30% in agricoltura e del 27% nel turismo.
L’agricoltura resta il principale bacino del lavoro nero, con circa 45mila lavoratori irregolari, concentrati nelle province di Ragusa, Caltanissetta e Trapani. Nel turismo e nella ristorazione, un quarto dei lavoratori stagionali non è contrattualizzato, mentre nei servizi domestici la perdita media annua di contributi previdenziali supera i 120 milioni di euro.
Il reddito medio disponibile per abitante in Sicilia è di 16.500 euro annui, contro una media italiana di 21.800. Il Pil pro capite siciliano resta al 59% della media nazionale, e il 28% dei giovani under 35 lavora in condizioni irregolari. Dal 2016 la Regione dispone di un Osservatorio sul lavoro sommerso, ma i report pubblici si sono fermati al 2021. I fondi del PNRR destinati all’inclusione e alla coesione, pari a 220 milioni di euro, risultano spesi per meno del 30%.
Secondo la Corte dei Conti, la Sicilia mostra un disallineamento tra capacità di controllo e dimensione del fenomeno, aggravato da carenze di ispettori e di sistemi digitali di tracciamento delle prestazioni lavorative. Le imprese che operano nell’irregolarità risparmiano fino al 35% sul costo del lavoro, mentre lo Stato perde circa 1,3 miliardi di euro di contributi non versati ogni anno.
La filiera del sommerso alimenta microappalti, false partite IVA e concorrenza sleale, indebolendo le imprese regolari. Il costo medio del lavoro regolare in Italia resta infatti del 25% superiore alla media europea. Basti pensare che l’Italia, con il suo 10,2% di Pil non osservato, è seconda solo alla Grecia in Europa.
Lavoro nero in Sicilia, Lucchesi (Cgil): “Un’emergenza strutturale”
“Già dai numeri del 2022 rielaborati one dalla CGIA di Mestre, emerge che in Sicilia l’economia non osservata superasse i 14 miliardi di euro, pari al 17,3% del valore aggiunto regionale. Il persistere dei problemi evidenziati dall’ultimo rapporto Istat, non possono stupire”. A parlare ai microfoni del QdS è Francesco Lucchesi, componente della cabina di regia della Cgil Sicilia. “I riscontri concreti del lavoro sommerso arrivano anche dalle ispezioni. Nei controlli svolti dagli ispettori del lavoro — a livello nazionale e in Sicilia — fra il primo gennaio e giugno 2025, circa l’80% delle verifiche ha rilevato irregolarità”.
Su 288 lavoratori verificati, 213 sono stati trovati in nero: un dato “oggettivamente allarmante”, sintetizza Lucchesi. I settori più esposti sono noti: agricoltura, servizi di cura (badanti), commercio, trasporti e ristorazione. “Nell’agricoltura almeno il 20% dei lavoratori opera in condizioni di irregolarità, tanto gli italiani quanto gli stranieri”.
Il quadro territoriale e produttivo gioca un ruolo decisivo. “La Sicilia ha un impianto industriale debole: l’occupazione pubblica pesa poco, mentre il tessuto produttivo è composto per oltre il 90% da microimprese con meno di 10 dipendenti”. È un terreno favorevole al lavoro irregolare, dove il datore ha spesso convenienza economica a ricorrere al nero e il lavoratore — per disperazione o mancanza di alternative — accetta condizioni dequalificate e senza tutele.
Le conseguenze sono individuali e collettive: perdita di contributi, pensioni future più povere, compressione dei diritti e concorrenza sleale per le imprese che rispettano le regole. Le sanzioni esistenti — fino a cifre dell’ordine di circa 15.000 euro a controllo — non bastano se i controlli sono sporadici.
Si ritorna dunque al tema dell’insufficiente presenza di ispettori del lavoro nell’Isola. “Se qui vieni controllato una volta ogni vent’anni, il rischio percepito è nullo”, osserva il sindacalista. “Sul versante repressivo servono controlli più sistematici e mirati, con risorse per gli ispettorati e procedure che rendano effettive le sanzioni. Sul versante preventivo occorrono incentivi alla regolarizzazione, percorsi di emersione del lavoro sommerso e campagne di educazione civica e lavorativa nelle scuole”.
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