Strage di Capaci, 30 anni dopo: così la mafia condannò a morte Giovanni Falcone - QdS

Strage di Capaci, 30 anni dopo: così la mafia condannò a morte Giovanni Falcone

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Strage di Capaci, 30 anni dopo: così la mafia condannò a morte Giovanni Falcone

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domenica 22 Maggio 2022

Sono passati trent’anni e il messaggio lasciato dal giudice eroe è ancora vivo nell’immaginario collettivo

Sono trascorsi quasi trent’anni dalla strage di Capaci, dove persero la vita, il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Sono passati quasi trent’anni e il messaggio lasciato dal giudice eroe è ancora vivo nell’immaginario collettivo.

La strage di Capaci, quel maledetto giorno che cambiò la storia del Paese

Negli ultimi giorni di maggio del 1992 l’opinione pubblica già scossa per Tangentopoli, viene stravolta dall’attentato di Capaci che, nella sua brutalità, mette l’intero Paese di fronte alla realtà: lo Stato è entrato in guerra in cui un nemico spietato e feroce che sta eliminando gli uomini delle istituzioni che cercano di sconfiggerlo.

La ricostruzione della strage

Sono quasi le sei del pomeriggio. Sull’autostrada A29 che dall’aeroporto di Punta Raisi, in Sicilia, porta a Palermo, viaggiano tre Fiat Croma. A bordo, ci sono il giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonino Montinaro. Con loro, gli altri membri della scorta Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, assieme all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.

La corsa delle tre vetture si arresta all’altezza dello svincolo di Capaci.

Sotto all’asfalto è stata piazzata mezza tonnellata di esplosivo. Un detonatore azionato dalla collina che sovrasta l’autostrada scatena l’inferno: la carreggiata viene ridotta ad un cumulo di macerie. Del convoglio, si salvano soltanto Capuzza, Corbo, Cervello e Costanza.

“L’autostrada era sparita, al suo posto c’era un cratere”

Antonio Vassallo, fotografo, è uno dei primi ad arrivare sul posto. Parlando alla stampa internazionale in occasione del venticinquesimo anniversario della strage, nel 2017, riannodava i fili della memoria: “Ho sentito l’esplosione, erano le 17:58. Sono saltato in sella al motorino e mi sono trovato di fronte una scena mai vista, degna di un film di guerra. Gli ulivi centenari sradicati da terra. Un pezzo di autostrada era semplicemente sparito: al suo posto c’era un cratere”.

La strage di Capaci suscitò in tutta Italia un’ondata di sdegno. Ciò nonostante, Cosa Nostra non si arrestò, finendo per colpire anche il collega e amico di Falcone, Paolo Borsellino, che aveva raccolto il testimone delle indagini.

Il giudice sapeva di essere condannato e non a caso ripeteva ai suoi, lavorando giorno e notte, nelle ultime settimane di vita: “Ho poco tempo”. Anche lui sarà ucciso dal tritolo mafioso, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, dove si era recato per andare a trovare la madre. Una Fiat 126 imbottita di esplosivo spezzò la vita di Borsellino, assieme a quella dei cinque agenti della scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

“È finito tutto”

Pochi giorni prima di morire, Borsellino ricordò Falcone in un discorso nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo, attaccando duramente lo stato e le sue istituzioni. Parlando di “qualche Giuda che lo ha preso in giro” e affermando che “la sua morte l’avevo in qualche modo messa in conto”. Con Borsellino, se ne andò in quella calda giornata siciliana il più importante collega di Giovanni Falcone. Il pool, che già formalmente non esisteva più, era di fatto disintegrato.

Il 24 luglio 1992, 10mila persone si presentarono ai funerali di Borsellino, che furono celebrati in forma privata dopo che i familiari del magistrato rifiutarono il rito di stato. L’orazione funebre fu affidata ad Antonino Caponnetto, ex giudice di cui gli italiani non potranno mai dimenticare lo sguardo, quando appena giunto sul luogo della strage in via D’Amelio, stringeva il microfono di un giornalista, faticando a trattenere le lacrime e scandendo: “È finito tutto”.

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