Dalle comunità energetiche al ruolo dell’alimentazione, a Catania esperti a confronto nel convegno organizzato da Europe Direct. Genovesi (Oipa): “Ai suoli restano sessantanni di produttività"
CATANIA – Vincere l’emergenza climatica, trovare e attuare modelli di sviluppo sostenibile e assicurare un futuro alle nuove generazioni, questi gli obiettivi degli esperti che hanno deciso di confrontarsi durante l’evento organizzato da Europe Direct a Catania, intitolato “Futuro e competenze, la sfida della transizione ecologica” e moderato da Giuseppe Ursino, presidente della Ong Osservatorio e-Medine. Un nuovo mondo è davvero possibile? Per Francesco Caudullo – responsabile documentalista del Cde – solo superando il prima possibile l’attuale approccio antropocentrico: “Bisogna andare oltre la concezione della natura a buon mercato e impostare una nuova relazione ecologica, operando una revisione radicale del concetto di natura, rifiutando l’esclusività relazionale antropocentrica. Ma bisogna anche andare oltre l’approccio della decrescita felice. Quello più responsabile è rappresentato, invece, dalla transizione ecologica, della rivoluzione verde, del green deal che imposta un agire diverso da quello esclusivamente economico, pensando a creare comunità sostenibili con consumi responsabili”, ha detto.
Comunità energetiche parziale via d’uscita
Che l’Ue stia facendo bene ne è convinta pure Daniela Fisichella, docente di Diritto internazionale dell’Ue di UniCt: “Le politiche Ue si muovono a livello intermedio tra diritto internazionale, europeo e nazionale. Con Von der Leyen gli interventi dell’Ue in merito alla transizione ecologica sono diventati specifici e si muovono su linee guida precise, come la riduzione delle risorse energetiche, l’efficienza nel loro uso, l’economia circolare, il consumo e la produzione sostenibili, la preservazione e la riparazione degli ecosistemi – ha spiegato -. Ma bisogna considerare che l’estensione delle fonti energetiche rinnovabili spetta ai singoli Stati e che qualsiasi adeguamento comporta dei costi”. Eppure esistono comunità che hanno concretamente realizzato tutto questo. A farlo sapere è Marisa Meli, responsabile del master in Diritto dell’ambiente e gestione del territorio di UniCt. “Le comunità energetiche sono un grande elemento di novità, che esiste nonostante la mancanza dei decreti attuativi. Il legislatore è in ritardo, ma questo modello arriva direttamente dal passato – ha aggiunto -, precisamente dagli inizi del ‘900, come forma di società operativa per la condivisione dell’energia idroelettrica che ha dato vita a un modello di produzione diversa da quella che è stata poi imposta a livello nazionale”. Oggi questo paradigma è stato reintrodotto e prevede l’associazione di più soggetti, pubblici e/o privati, con lo scopo di realizzare la produzione di energia e la piena operatività sul mercato. “Funziona come un’impresa vera e propria, ma nello svolgimento non ha come priorità lo sviluppo economico, bensì la produzione di vantaggi ambientali e sociali”, ha precisato la professoressa.
Le contraddizioni della politica
La transizione ecologica in Sicilia, come nel resto del Paese, non è lineare e dà vita a contraddizioni come in alcuni casi nel polo petrolchimico siracusano. A darne testimonianza con un reportage fotografico, Mara Benadusi, docente di Antropologia culturale di UniCt. Eppure la cittadinanza in Sicilia, e più in generale nel Sud Italia, pare avere una consapevolezza maggiore dei gravi problemi legati all’emergenza climatica. A suggerirlo uno studio di Vincenzo Memoli, docente di Scienza politica di UniCt, che ha evidenziato pure come gli elettori e i politici tendenti a destra si rivelino più disattenti alla questione. Cosa fare, allora, per invertire la tendenza? Sicuramente serve procedere su un triplo binario. Accanto ai nuovi interventi del legislatore, serve che l’impresa operi in modo più responsabile – magari approfittando delle iniziative e dei fondi Ue come suggerito da Claudia Vittorio, project manager di Jo Group – e che la scuola si riappropri del suo ruolo di orientamento continuo, come auspicato da Gaetano Pagano, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Catania Egidio Pagano: “Non possiamo preoccuparci soltanto di orientare i giovani verso la scelta di precisi indirizzi universitari – ha considerato –, dobbiamo orientarli al futuro, anche con attività serie di sensibilizzazione sulla transizione ecologica. Per l’università l’orientamento è una norma, bisogna che la si applichi e la si estenda a partire dalla scuola elementare”.
Il ruolo dell’alimentazione
Nemmeno l’alimentazione può essere considerata slegata dall’emergenza climatica. Anzi, è da ritenersi il primo degli elementi da ripensare se si vuole davvero intraprendere il percorso della transizione ecologica. A spiegarlo nei dettagli Tiziana Genovese, delegata dell’OIPA di Catania: “Ambiente e animali, categoria quest’ultima in cui rientrano umani e non umani, sono un tutt’uno. La verità è che facciamo voli pindarici, abbiamo idee incredibilmente belle, ma nella nostra vita quotidiana quali azioni concrete siamo disposti a compiere? C’è poca consapevolezza, non si comprende come certi meccanismi siano legati gli uni agli altri e come basti poco per fare già dei grandi passi avanti – ha detto –. Bisogna difendere il cruelty free e la produzione di carne in vitro e non soltanto per tutelare il benessere degli animali. Quello che viviamo, infatti, è dovuto pure alle nostre scelte alimentari. Basti pensare che il 70% della biomassa degli uccelli è rappresentato dagli uccelli di allevamento, che il 60% della biomassa dei mammiferi è costituito dai bovini e dai suini di allevamento, il 30% dagli umani e il 4% dai mammiferi selvatici. Gli allevamenti intensivi sono oggi i responsabili di una grandissima parte dell’emissione di gas e il 40% dei terreni sulla Terra è coltivato per la produzione di mangimi per animali”.
Numeri di un mondo spaccato a metà
Il quadro tracciato da Tiziana Genovese ci restituisce un mondo spaccato a metà in cui si muore per un quid di “troppo” rappresentato alternativamente da fame o da troppo cibo. “Più di 820 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza per sopravvivere, mentre, secondo la Fao il resto del mondo spreca 1 miliardo e 300 tonnellate di cibo commestibile ogni anno – ha aggiunto –. A livello globale abbiamo una separazione tra chi spreca il cibo e chi non riesce a sopravvivere perché muore di inedia. Miliardi di uomini, donne e bambini sono in condizione di sovrappeso e obesità, mentre in altre zone del mondo a stento qualcuno sopravvive con il minimo che riesce a procurarsi”. Al di là delle differenze, siamo troppi per essere sfamati tutti? Non secondo i dati: “Un quarto della popolazione mondiale è in forma grave o moderata di insufficienza alimentare, nonostante le kcal prodotte sarebbero sufficienti a sfamare più del doppio della popolazione mondiale – ha continuato –. Nelle regioni più sviluppate il consumo di animali e derivati è al di sopra degli standard raccomandati per la salute e il benessere per l’individuo e per il pianeta; il consumo di carni rosse e delle elaborazioni provenienti dagli allevamenti intensivi, dove gli animali vengono alimentati in modo artificiale, favoriscono invece l’insorgenza di malattie cardiache, cancro, diabete. I numeri ci stanno dicendo che qualcosa forse è al di fuori degli standard di normalità e noi dell’Oipa non lo diciamo più da animalisti ma da persona consapevoli dell’esigenza di un equilibrio tra ambiente, animali e umani”.
Suolo, produttività a tempo determinato
Riuscire a sfuggire alla fame e ai danni della cattiva alimentazione non ci salva in ogni caso dai danni del cambiamento climatico. “La produzione alimentare non gestita in modo sostenibile è pure uno dei principali fattori di perdita della biodiversità: inquina l’aria, le acque, il suolo – ha concluso Genovesi –. Se si vogliono ridurre le emissioni, si deve ridurre il consumo di carne e latticini. Non bisogna per forza diventare vegani e vegetariani, basta orientarsi a un’alimentazione consapevole. Secondo l’Onu, poi, lo sfruttamento intensivo dei suoli rende questi ultimi potenzialmente produttivi soltanto per altri 60 anni e un milione di specie animali e vegetali sono a rischio estinzione. Gli allevamenti intensivi devono essere trasformati in allevamenti rigenerativi che rispettino il benessere animale e il benessere del suolo, viceversa nessuna transizione è possibile. Nonostante in Italia si proceda a rilento, in alcune parti del mondo questo sta avvenendo, dimostrando che un’altra prospettiva è possibile”.