BRUXELLES – C’era una volta… e potrebbe esserci ancora? Il “ciclone” Donald Trump che si è abbattuto sulla Nato nel corso di queste settimane ha rinfocolato il dibattito sulla necessità di una difesa europea capace e strutturata, nonché indipendente dai partner d’oltreoceano. A fine giugno, all’Aja, i 32 Paesi membri dell’Alleanza Atlantica – di cui 23 sul suolo europeo – hanno espresso la volontà comune di ampliare la spesa annua per la difesa al 5% del Pil entro il 2035.
Un risultato significativo, in particolare per l’inquilino dello Studio Ovale, che già in occasione della sua campagna elettorale aveva espresso dure critiche nei confronti dei partner europei, “colpevoli” di non impiegare abbastanza risorse a scopo difensivo e aprendo la strada, de facto, a un eventuale disimpegno di Washington dal ruolo di “garante” del Patto Atlantico.
Meno investimenti statunitensi nel Vecchio continente non si tradurrebbero, macchinalmente, in una rinuncia da parte degli Usa alla condivisione dei valori espressi nell’articolo 5 dell’Alleanza che stabilisce il principio di difesa collettiva, ma pone interrogativi su “come” la Federazione nordamericana potrebbe assicurare supporto all’Europa in caso di necessità, specialmente in un’era in cui la Russia continua a manifestare sforzi bellici in Ucraina, proprio alle porte del territorio continentale.
L’idea di creare il famoso esercito comune europeo non è una novità
L’idea di creare il famoso esercito comune europeo, tuttavia, non è di certo una novità così come insegna la storia dell’Europa di metà Novecento. A parlare per la prima volta di una collaborazione militare tra Stati europei fu Jean Monnet, politico francese e tra i pionieri dell’Europa unita che, insieme al primo ministro francese René Pleven, nel secondo dopoguerra avanzò con convinzione la proposta di una gestione sovranazionale dell’esercito transalpino nelle mani della cosiddetta Comunità europea di difesa (Ced).
Il progetto, parallelo a quello già messo in atto dalla Nato a trazione angloamericana, venne accolto favorevolmente dai Paesi già aderenti alla Ceca – Italia compresa – che ritennero necessaria la comunione di risorse militari e di intelligence, sotto l’egida di un ministro europeo della difesa nominato dai governi, al fine di contrastare le minacce esterne.
Trai i numerosi fattori, una spinta notevole verso la costituzione della Ced venne data dallo scoppio della guerra di Corea, con l’invasione nel giugno 1950 della Corea del Sud filoccidentale da parte della Corea del Nord filosovietica, all’interno di un contesto internazionale segnato dalla guerra fredda e dalla contrapposizione tra i due blocchi.
Il trattato costitutivo della Ced fu dunque firmato il 27 maggio 1952 alla Conferenza di Parigi da Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi e prevedeva, attraverso l’articolo 38 fortemente voluto dal presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi, anche la creazione di un’Assemblea della Comunità europea di difesa, di natura elettiva, per l’organizzazione di una Comunità politica europea (Cpe).
Tuttavia, il processo europeo di costituzione di un apparato militare comune subisce un inaspettato arresto a causa dei ritardi di Italia e Francia nel completamento della ratifica. In particolare, è l’Assemblea della Quarta Repubblica francese a dare la “spallata” decisiva il progetto, attraverso il voto del 30 agosto 1954. La Comunità europea di difesa venne così riposta del cassetto all’ultimo miglio, proprio nei giorni in cui De Gasperi moriva, senza assistere – forse per bontà del destino – all’arenamento del suo ultimo sogno europeo. Oggi, tuttavia, immaginare un’Europa unita non solo politicamente ed economicamente, ma anche militarmente, potrebbe non rimanere più un progetto distante nel tempo.
“Un progetto di difesa unitario è possibile, l’Ue si prepari al disimpegno americano”
Meno Usa, più Europa? Le mosse in politica estera di Washington durante i primi mesi del “Trump bis” hanno minato le certezze del Vecchio Continente. Il sostegno americano in tema di difesa non rappresenta più una garanzia sine die e l’Ue si vede costretta a riconsiderare il proprio futuro. Per Antonio Missiroli, senior advisor Ispi, ex consigliere alla Commissione europea, direttore dell’Istituto di studi sulla sicurezza dell’Ue e già assistente del Segretario generale della Nato, l’Europa deve necessariamente unire le forze e non sottovalutare un potenziale passo di lato di Washington.
Professore Missiroli, il progetto della Comunità europea di difesa è oggi replicabile, alla luce dell’instabilità Nato e delle nuove sfide che interessano il Continente?
“Il trattato e il progetto di comunità europea di difesa nascono in un periodo del tutto particolare: all’inizio della guerra fredda e subito dopo la creazione dell’Alleanza Atlantica, nella primavera del 1949, gli Stati Uniti spingevano per il riarmo della Germania occidentale, all’epoca occupata da americani, francesi e britannici per poter sfruttare la capacità industriale ancora enorme del Paese. Per fare ciò, era necessario creare una specie di cornice istituzionale – anche europea – che permettesse agli altri europei di non vedere il riarmo tedesco come una minaccia dopo gli eventi del Nazismo e della Seconda guerra mondiale. Il trattato, che comprendeva più di cento articoli, specificava in grande dettaglio quanti carri armati, quanti aerei, quante navi e quanti soldati avrebbe dovuto mettere a disposizione dell’organizzazione ciascun Paese aderente. Da ultimo, siccome non esisteva un’autorità politica di riferimento unica, gli americani insistettero perché questo esercito europeo fosse messo sotto il comando del comandante alleato della Nato, che all’inizio fu addirittura Dwight Eisenhower, futuro presidente Usa. Il trattato fallì all’assemblea nazionale francese nell’estate del ‘54, probabilmente anche perché l’esercito era sotto il comando alleato americano. Furono soprattutto i gollisti e i comunisti, che sostanzialmente lo bocciarono. Anche l’Italia all’epoca non l’aveva ancora ratificato, soprattutto per ragioni di politica interna legate alla transizione dopo l’uscita di scena di De Gasperi. Dunque, l’integrazione militare della Germania occidentale avvenne all’interno della Nato, la Germania occidentale venne ammessa nell’Alleanza e di fatto la Comunità europea di difesa viene messa da parte, con l’integrazione europea che si avviò invece su un canale completamente diverso (quello economico e sociale), mentre invece la difesa viene conferita interamente alla Nato. C’è chi sostiene che oggi si potrebbe provare a rilanciare quel progetto, ma bisogna tenere presente che il trattato, come tale, avrebbe veramente poco senso perché contiene riferimenti molto precisi e vincolanti sulle forze militari da mettere a disposizione che a settant’anni in distanza non hanno alcun senso”.
L’Europa potrebbe comunque mettere in piedi un moderno accordo comune per la difesa?
“Un accordo ad hoc per quanto riguarda una difesa europea svincolata dalla Nato non è impossibile: i trattati dell’Unione europea prevedono la possibilità che si possa arrivare a una difesa comune fra 27 Paesi membri dell’Ue, ma questo dovrebbe richiedere una decisione unanime del Consiglio europeo, quindi un’unità dei 27 che oggi non appare semplice da raggiungere. Ed è evidente che, per una credibile capacità comune di difesa europea, è molto difficile tenere fuori i britannici. Molte delle iniziative – anche di queste ultime settimane – hanno visto protagonista la Gran Bretagna, perché la sua capacità militare industriale, perfino nucleare, sarebbe essenziale nel caso si dovesse procedere senza gli americani. Quindi, da questo punto di vista, mi sembra per certi aspetti perfino indesiderabile risuscitare il vecchio progetto di Comunità europea di difesa, ma ciò non significa che non si debba cominciare a pensare a una specie di piano B, alla possibilità di un’organizzazione specifica fra europei in materia di difesa, però che vada al di là della cornice ristretta dell’Unione europea. Io amo sempre parlare di una possibile equazione per esprimerla che sarebbe 27-X +Y, dove la X sono i Paesi dell’Unione europea non partecipanti al progetto e la Y è rappresentata dai Paesi europei non membri Ue (come la Gran Bretagna o la Norvegia) che invece sarebbero molto interessati a farne parte”.
Un’Europa con un proprio esercito dovrebbe comunque fare i conti con l’innalzamento al 5% della spesa del Pil in difesa.
“Diciamo che il 5% per il momento è un obiettivo che è diluito nel tempo (dieci anni) e non è stato fissato in ambito Ue, ma è evidente che tutti i Paesi europei vicini all’Unione o all’Alleanza, nei prossimi anni si impegneranno a spendere di più. La cosa importante non è soltanto spendere di più, ma è spendere meglio e insieme, perché le economie di scala e i benefici operativi che potrebbero venire da progetti congiunti, dalla possibilità di costruire alcuni sistemi di armamento di difesa comuni a tutti i Paesi, quindi con ordini anche per l’industria della difesa di maggiore taglia e durata sono abbastanza evidenti. Qui, evidentemente, un approccio comune con una serie di progetti transnazionali fra i Paesi più importanti sarebbe decisivo: significa anche offrire all’industria una prospettiva temporale sufficiente per fare gli investimenti necessari. Vorrei ricordare che, per quanto riguarda l’industria della difesa, molti dei sistemi che vengono utilizzati – dai caccia alle fregate passando per i carri armati – comportano un ciclo di vita di decenni per essere lanciati, messi in opera e poi essere mantenuti nel corso del tempo. Quindi deve essere messo in conto un orizzonte temporale diverso e, anche, nella prospettiva di un probabile disimpegno americano dal Continente europeo. Questa è forse la strada da intraprendere in questo frangente”.
Entro quando potrebbe concretizzarsi al 100% il probabile disimpegno statunitense all’interno della stessa Nato? O si tratta soltanto di propaganda da parte di Trump?
“Il trattato della Nato permette a un Paese membro dell’Alleanza di uscirne con un preavviso di un anno, senza necessariamente doversi sottoporre a negoziati particolari con gli alleati. Chiaramente, sarebbe scioccante se un Paese come gli Stati Uniti dovessero decidere di lasciare l’Alleanza. Trump qualche volta ha minacciato, sia pure con un linguaggio un po’ oscuro un disimpegno anche drastico degli Stati Uniti. Credo che si parli più che altro di un disimpegno relativo e graduale, cioè di una riallocazione delle risorse delle forze militari americane su altri teatri, senza necessariamente abbandonare completamente l’Europa. Bisogna ricordare che in Europa non ci sono soltanto basi Nato, ma anche molte basi americane (anche in Italia, dove sono tuttora presenti 10 mila soldati statunitensi). Per gli europei si pone il problema di come programmare la progressiva sostituzione di queste capacità militari. Risulta molto difficile stabilirne i tempi, in parte perché queste sono prospettive almeno di medio periodo, in parte, anche per l’assoluta imprevedibilità del presidente americano che, con un messaggio sui social media potrebbe annunciare di lanciare una procedura di questo tipo. Gli alleati sono molto preoccupati, hanno chiesto più volte agli statunitensi di presentare, eventualmente, una specie di calendario per il loro parziale disimpegno, ma fino a oggi non c’è stata risposta”.
Una prospettiva di questo genere potrebbe realizzarsi non per forza sotto l’Amministrazione Trump?
“Potrebbe cominciare con Trump, ma la sua presidenza ha ancora un orizzonte limitato, mentre un ridispiegamento richiede più tempo. Penso, comunque, che molti europei coltivino più o meno segretamente la speranza che un’eventuale altra Amministrazione dopo Trump possa decidere quanto meno di rallentare questo possibile disimpegno. Ma bisogna comunque prepararsi all’ipotesi che l’attuale presenza americana in Europa diminuisca”.
Ciò significherebbe essere meno dipendenti dagli Stati Uniti e avere più possibilità e forza per fare fronte comune all’interno del Continente europeo.
“Direi di sì e che questo potrebbe avvenire in parte all’interno della stessa Alleanza Atlantica. Si parla spesso di rafforzare il ‘pilastro europeo’ nella Nato, di avere una Nato più europea e meno americana. È auspicabile anzi che questo avvenga anche con il supporto delle risorse dell’Unione europea, come è avvenuto con le recenti proposte per l’industria della difesa che sono venute dalla Commissione, e, che ci possono essere anche delle cornici più informali -come quelle che vengono spesso definite ‘coalizioni dei volenterosi’ – che potrebbero comprendere, appunto, anche paesi non dell’Unione europea che almeno in una fase iniziale comincino a lavorare fra loro e, in una fase successiva, stabiliscano un nuoto trattato ad hoc per definire meglio le regole di questa cooperazione militare europea”.

