Home » Mondi lontanissimi » Il vero Halloween è in Sicilia: qui la morte è più viva che mai

Il vero Halloween è in Sicilia: qui la morte è più viva che mai

Il vero Halloween è in Sicilia: qui la morte è più viva che mai
Vignetta di Maryelena Grasso

L’Isola non ha nulla da invidiare all’America quanto a tradizioni legate al giorno dei defunti. Dai non-morti in cammino tra l’1 e il 2 novembre per portare doni ai bambini fino ai vari riti che guardano al trapasso come un altro modo di “continuare”

In Sicilia, la morte non è mai stata in silenzio. È una voce sommessa che attraversa le stanze, un bisbiglio che si mescola al vento e percorre le vie cittadine. Infatti, i morti, in Sicilia, non stanno mai zitti: parlano, si manifestano nei sogni, addirittura camminano pure per le strade antiche. Non sono fantasmi da temere, ma presenze familiari, parte di una geografia emotiva che unisce le case ai cimiteri e la memoria al quotidiano. La morte, qui, non divide: accompagna. Diventa così un’altra forma del vivere.

Giuseppe Pitrè, medico ed esperto di tradizioni popolari, lo aveva capito meglio di chiunque altro. Nella sua Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane annotava storie di morti che mangiano come i vivi, di defunti che si rimettono in cammino nella notte tra l’1 e il 2 novembre per portare doni ai bambini; non ombre, ma ospiti educati e affamati che bussano alle nostre porte. A Erice si fermano a Rocca Chiana per riposare e gustare le genovesi ericine, delizie di pasta frolla e crema, prima di tornare a Palermo. In molte case siciliane, si apparecchia per loro una tavola di fave bollite o focacce al mirto, perché possano sfamarsi e ricordare che i vivi non li hanno dimenticati. Ma come si mostrano ai vivi i nostri? Ad Acireale, si camuffano con il classico lenzuolo bianco, a Borghetto e Partinico, in provincia di Palermo, indossano sotto i piedi una grattugia vagando con un lume mentre recitano rosari e litanie. Nei paesi etnei, hanno il collo sottilissimo e vagano alla ricerca della casa giusta per trasformarsi in formiche e lasciare tanti doni ai bambini.

Anche per la letteratura isolana la morte non è mai solo fine, ma una soglia da attraversare. Giovanni Verga, nella Festa dei Morti, trasforma la ricorrenza in un paesaggio gotico, dove le anime dimenticate chiedono memoria più che pietà. Andrea Camilleri, invece, la racconta con la nostalgia dei bambini che aspettano i regali dei “loro morti”, in una Sicilia dove la tenerezza si mescola alla paura. E Leonardo Sciascia ne fa un pensiero costante, un filo che lega l’uomo al mistero dell’esistere: nel Cavaliere e la morte, la morte diventa compagna e testimone, specchio di verità e coscienza. Un linguaggio che la Sicilia continua a sussurrare, senza timore né rassegnazione.

Ma il dialogo tra vivi e defunti si rinnova soprattutto nei riti. Nelle campagne si racconta di processioni di anime che attraversano i paesi, di finestre aperte perché l’anima possa uscire, di specchi coperti per non imprigionarla. Finché il corpo resta in casa, si dice, l’anima presenzia: le si parla, le si affidano messaggi per altri defunti. Anche il funerale, in fondo, è “l’ultima festa”, un commiato che celebra la continuità. Perché in Sicilia la morte non è interruzione, ma passaggio, e i morti — come scriveva qualcuno — sono vivi a intermittenza.

Ignazio Buttitta, nella poesia Li morti, lo dice con parole che non lasciano scampo all’oblio: Nun mòrinu allura, / nun parranu; / ma seguitano a campari. I morti, per il poeta di Bagheria, continuano a vivere finché qualcuno li pensa, li veste, li accompagna. Sentono, vedono, e persino si vergognano di passare davanti ai loro creditori durante il funerale. È la loro umanità che ci inchioda: perché i morti, in Sicilia, non smettono di essere persone. E i vivi, nel ricordarli, non smettono di essere parte del loro mondo. Così, ogni 2 novembre, l’isola si riempie di voci e profumi, di giocattoli per i bambini e di candele tremolanti. È la festa più morta e più viva di tutte: la prova che in Sicilia, anche la fine è solo un altro modo di continuare.