Vietare per legge il consumo di suolo - QdS

Vietare per legge il consumo di suolo

redazione

Vietare per legge il consumo di suolo

martedì 06 Dicembre 2022

Ieri la Giornata mondiale contro la cementificazione: da dieci anni è ferma in Parlamento una proposta per impedire nuove costruzioni nelle aree rimaste libere e intanto le coperture artificiali avanzano al ritmo di 2 metri quadrati al secondo

PALERMO – La Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”. A stabilirlo, nero su bianco, è la nuova formulazione dell’art.9 della Costituzione, una norma che ora sembra suonare come una sveglia per il Parlamento, dove da ben dieci anni è fermo un disegno di legge per fermare il consumo di suolo nel nostro Paese. Che invece avanza ritmi forsennati. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispra, tornato ieri alla ribalta in occasione della Giornata mondiale contro il consumo di suolo, in Italia vengono cementificati 2 metri quadrati al secondo, 19 ettari al giorno nel 2021, il valore più alto degli ultimi dieci anni. Un assalto al territorio che viene da lontano e che ha portato a ricoprire artificialmente oltre 21.500 km2 di suolo, di cui 5.400 occupati da edifici, come se ogni centimetro della Liguria ospitasse solo fabbricati. Il punto è che nel nostro Paese il cemento è arrivato dovunque, anche in quei luoghi dove il normale buonsenso avrebbe dovuto impedire ogni costruzione di sorta. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti, anzi sotto le macerie che hanno devastato, da ultimo, Ischia appena qualche giorno fa, uccidendo undici persone.

Come evidenziato ancora da Ispra, il suolo perso in Italia dal 2012 ad oggi avrebbe garantito l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana che, restando sulle superfici impermeabilizzate da asfalto e cemento, non sono più disponibili per la ricarica delle falde, aggravando anche la pericolosità idraulica dei nostri territori, che dal 2000 al 2019 ha causato 438 morti in Italia (Fonte CNR-Irpi). “L’Italia è un paese fragile: oltre il 16% del territorio è in aree ad elevato rischio idrogeologico e sono 6 milioni le persone interessate, che cioè vivono in aree di potenziale rischio” afferma Luciano Di Tizio, presidente Wwf Italia.

Ma non si tratta solo di regolare il ciclo idrologico e controllare l’erosione, ogni metro di territorio consumato crea danni enormi per la perdita di tutta una serie di servizi naturali, noti come “servizi ecosistemici”. Tra questi, la produzione agricola, la produzione di legname, l’impollinazione, la regolazione del microclima, la rimozione di particolato e ozono, lo stoccaggio di carbonio. Solo quest’ultimo punto vale moltissimo. Ispra ha calcolato come “la perdita della capacità di immagazzinare CO2 equivale a quanto emetterebbero più di un milione di autovetture con una percorrenza media di 11.200 km l’anno tra il 2012 e il 2020: un totale di oltre 90 miliardi di chilometri percorsi, più di 2 milioni di volte il giro della terra”.

Un’emergenza legata a doppio filo con il cambiamento climatico e che il nostro Paese non sta affrontando, lasciando il pallino a Comuni e Regioni che continuano ad autorizzare nuove costruzioni. Eppure nel maggio 2016 la Camera dei deputati approvò un disegno di legge proprio sul contrasto al consumo di suolo, poi arenatosi in Commissione al Senato. “Complice – ricostruisce Sandro Simoncini, docente di Urbanistica presso l’università Uninettuno e presidente di Sogeea Spa – la decisa opposizione delle Regioni a riconoscere la legittimità di un intervento normativo nazionale sulla materia. Risulta indispensabile un provvedimento organico e strutturale che sia in grado di indirizzare anche le scelte degli enti locali, che troppo spesso hanno eccessiva libertà di movimento in una materia tanto delicata. Alcune leggi regionali, ad esempio, somigliano più a condoni edilizi mascherati che a veri piani di rigenerazione urbana e contrasto alla cementificazione”.

La norma avrebbe permesso di arrivare a quota zero edificazioni, cioè a non cementificare un metro quadro in più, entro il 2050. “Sono dieci anni che l’Italia attende una legge per fermare il consumo di suolo, dall’approvazione del ddl proposto dall’ex ministro dell’Agricoltura, Mario Catania – commenta Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente -. Da allora le proposte di legge si sono moltiplicate, sono trascorse altre due legislature, ma una normativa non è mai uscita dalle secche della discussione parlamentare. Quanto avvenuto a Ischia mette la politica di fronte alla necessità di agire concretamente e in maniera tempestiva per dare al Paese una legge che rivesta un ruolo centrale contro il consumo indiscriminato di suolo”.

I soldi ci sono. “L’Italia, primo Paese beneficiario delle risorse del Next Generation EU, non può arrivare impreparata alle scadenze del Green Deal – conclude Ciafani -. Bisogna inoltre scongiurare il rischio che le risorse del Pnrr e i connessi investimenti infrastrutturali contribuiscano a una bolla espansiva del consumo di suolo. Promuovere la rimodulazione di tutti i bonus finalizzati alla riconversione dell’edilizia verso la riconversione energetica, antisismica e idraulica degli edifici”. C’è, infatti, un patrimonio immobiliare enorme che aspetta di essere rigenerato: si parla di oltre 310 km2 di edifici non utilizzati e degradati in tutta Italia, una superficie pari all’estensione di Milano e di Napoli. E invece il 70% delle trasformazioni è avvenuto nelle aree cittadine, “cancellando proprio quei suoli destinati alla rigenerazione” e aggravando il fenomeno delle cosiddette “isole di calore”, con la temperatura estiva che raggiunge spesso valori superiori ai 3° C rispetto alle aree rurali.

Tra le regioni più colpite c’è la Sicilia. Tra il 2020 e il 2021 il cemento ha ricoperto altri 487 ettari, in crescita rispetto ai 414 del 2019-2020. E oggi l’Isola è al quarto posto per cementificazione in valore assoluto, pari a oltre 167 mila ettari. Il risultato? Città sempre più calde d’estate e allagate in inverno. Di questo passo la situazione non potrà che peggiorare.

Abusivismo edilizio, una patologia del federalismo

Come di consueto in seguito alla tragedia la politica è tornata ad occuparsi di abusivismo edilizio, un problema che affligge il territorio italiano da decenni, alimentato da fattori di ordine sociale, economico, politico, profondamente radicati: diffuso fabbisogno abitativo, presunzione di impunità, reazione alla assenza di regole certe e alla lentezza ed inefficienza burocratica, copertura politica ecc. In un Paese in cui il rischio idrogeologico riguarda circa il 91% dei comuni, oltre 550mila edifici, circa 3 milioni di nuclei familiari e 6,2 milioni di persone, 600mila unità locali di impresa e 78mila beni culturali, risulta abusivo quasi il 19% degli immobili, molti dei quali realizzati in zone con vincolo ambientale o entro le fasce di rispetto marittimo, lacuale o fluviale. I report dell’Istituto nazionale di urbanistica rilevano la costante progressione del consumo di suolo in Italia e le carenze e criticità della disciplina normativa e dell’attività amministrativa di governo del territorio che impediscono di sfruttare le potenzialità di un invidiabile patrimonio culturale e di un territorio rurale che conserva ambienti incontaminati e una notevole biodiversità. E l’attività di repressione del fenomeno risulta carente quanto quella di prevenzione, dato che l’ultimo dossier “Abbatti l’Abuso” di Legambiente certifica che dal 2004 al 2020 è stato abbattuto solo il 32,9% degli immobili colpiti da ordinanza di demolizione (dato che scernde al 20,9% in Sicilia, dove su 4.537 ordinanze ne sono state esegute solo 950).

Da anni ormai si è ricostruita la mappa dell’abusivismo sull’intero territorio nazionale e su quelli regionali, sono state indicate le principali criticità che alimentano il fenomeno e annunciate le prime concrete iniziative: riordino della normativa urbanistica, controlli accurati, pugno di ferro con cittadini e amministrazioni inadempienti, istituzione di un fondo di rotazione per finanziare gli oneri dell’abbattimento degli immobili abusivi. E da anni i disegni di legge e i documenti di programmazione in materia proclamano obiettivi impegnativi e ambiziosi: riqualificazione delle aree metropolitane, strutturazione di un sistema urbano equilibrato e policentrico, gestione oculata e sviluppo del patrimonio naturale e culturale, attuazione di politiche territoriali integrate e trasversali in grado di coniugare competitività, sostenibilità ambientale e qualità della vita, valorizzazione delle risorse socio-economiche, culturali e identitarie delle aree interne, riduzione degli squilibri territoriali e incremento della capacità attrattiva del territorio regionale, integrazione tra zone urbane e peri-urbane e rurali in un’ottica metropolitana. Eppure non sembra concreta la prospettiva di definitiva soluzione di un problema che da decenni affligge il territorio e la società. La dilagante diffusione dell’abusivismo edilizio evidenzia il fallimento delle politiche urbanistiche e ambientali nazionali, regionali e locali, e la crisi del modello di federalismo consolidatosi dopo la riforma costituzionale del 2001.

Questa situazione di illegalità estremamente diffusa, infatti, origina da un concorso di cause e di responsabilità riconducibili alla qualità della legislazione, al deficit di collaborazione istituzionale, all’inefficienza amministrativa, alla carenza di risorse, a macroscopiche criticità nella ripartizione di poteri e risorse tra i diversi livelli istituzionali e nelle politiche pubbliche di governo del territorio. L’incerta distribuzione delle competenze nelle materie strategiche (ambiente, lavori pubblici, urbanistica) e la proliferazione di enti, agenzie e organismi tecnici hanno frammentato e annacquato le responsabilità, moltiplicato i centri decisionali, gli strumenti di pianificazione e le procedure, prodotto duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, alimentato il contenzioso. La tendenza dello Stato a scaricare sugli altri livelli di governo una quota sempre maggiore dei costi di risanamento della finanza pubblica attraverso vincoli alla spesa, riduzione delle entrate e tagli di personale ha privato gli enti locali, soprattutto quelli più piccoli, delle risorse umane e finanziarie necessarie per le attività di contrasto dell’abusivismo e di manutenzione del territorio; la complessità delle regole sugli appalti pubblici ha ostacolato la tempestiva esecuzione delle opere necessarie a prevenire il rischio idrogeologico; l’inefficienza degli enti locali nella gestione delle politiche urbanistiche ha alimentato la presunzione di impunità, che ha fornito un contributo decisivo al dilagare dell’abusivismo.

Legislazione permissiva, netta separazione tra competenze in materia urbanistica e ambientale e tra pianificazione paesistica e territoriale, frammentarietà dell’attività di pianificazione e diffusa arretratezza degli strumenti urbanistici, inefficienza amministrativa, carenza di risorse, di programmazione e di coordinamento tra le istituzioni, omissione dei controlli, diffuso fabbisogno abitativo, percezione di impunità, reazione all’assenza di regole certe e alla lentezza ed inefficienza burocratica e sottovalutazione del pericolo hanno contribuito ad orientare una consistente quota di attività edilizia verso la realizzazione di immobili abusivi. L’insieme di questi fattori ha creato una situazione di illegalità talmente diffusa da indurre la politica, e talvolta persino la Corte costituzionale, a ritenere che l’imposizione di regole restrittive e la severa repressione degli abusi avrebbero potuto generare problemi di ordine pubblico, e di conseguenza a optare per la creazione di una forma di legalità più permissiva, finalizzata a disciplinare e contenere il fenomeno piuttosto che contrastarlo duramente. Questo da allora è diventato il principio ispiratore delle politiche pubbliche, che ha legittimato l’ammorbidimento dei vincoli urbanistici, condoni e sanatorie ricorrenti, omissione di controlli e sanzioni.

Pochi comuni hanno realizzato il censimento degli immobili abusivi, nonostante gli elenchi delle cosiddette case fantasma siano stati diffusi dall’agenzia del Territorio tra il 2007 e il 2009; l’80% delle ordinanze di demolizione rimane inattuato; negli uffici comunali giacciono da anni circa centinaia di migliaia di domande di sanatoria edilizia, che spesso riguardano richieste prive dei requisiti, che gli uffici comunali, non potendo accogliere, lasciano in sospeso; i controlli sulla pianificazione comunale e sul rispetto degli adempimenti di legge si sono rivelati inefficaci e raramente le Regioni esercitano i poteri sostitutivi previsti dalla legge e sanzionano gli enti inadempienti.

Le amministrazioni pubbliche indicano la carenza di risorse come principale causa della scarsa manutenzione del territorio e della sopravvivenza di manufatti abusivi, ma la maggior parte degli enti locali non irroga agli autori degli abusi la sanzione fino a 20mila euro prevista dalla legge, e consente loro di continuare a beneficiare degli immobili senza corrispondere alcuna indennità né i tributi previsti dall’ordinamento, rinunciando di fatto a risorse preziose per finanziare le demolizioni, mentre sono rimasti sostanzialmente inattuati gli interventi previsti dal Patto per il Sud e dagli analoghi strumenti di concertazione finanziati con diversi miliardi di euro per contrastare il dissesto idrogeologico. Le ingenti risorse del programma Next Generation Eu e del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinate alla “rivoluzione verde” e alla transizione ecologica dovrebbero fornire slancio decisivo alle iniziative nazionali e regionali che perseguono obiettivi ambiziosi quali la promozione della “bellezza delle città e dei territori, dell’architettura contemporanea e della qualità dell’edilizia pubblica e privata” e un “consumo di suolo tendente a zero”, da conseguirsi incanalando la pianificazione e l’attività edilizia in una prospettiva incentrata sulla rigenerazione piuttosto che sulla espansione del patrimonio immobiliare (riuso di edifici, aree e infrastrutture e rigenerazione del territorio urbanizzato), mediante la ristrutturazione degli strumenti urbanistici e la semplificazione delle relative procedure di formazione e approvazione, la riqualificazione e l’aggiornamento delle politiche di pianificazione dei diversi livelli di governo e delle regole di perequazione e compensazione dei diritti d’uso dei suoli, l’introduzione di nuovi strumenti di governance delle politiche urbanistiche e di coordinamento e leale collaborazione tra gli attori istituzionali, concepiti per accrescere la conoscenza del territorio e del suo sviluppo urbanistico e favorire l’espressione di scelte comuni tra gli enti interessati.

Si tratta di un’importante occasione per elaborare una disciplina organica adeguata ai nuovi obiettivi e standard imposti dall’intensa evoluzione economico-sociale, ma l’esperienza di questi decenni insegna che per realizzare gli obiettivi attesi le riforme devono essere necessariamente accompagnate da idonee formule organizzative e percorsi procedimentali, dall’approntamento delle risorse economiche necessarie, da una razionale distribuzione delle funzioni e delle risorse tra le amministrazioni coinvolte, dall’elaborazione di tecniche appropriate di verifica dei risultati e da adeguati strumenti atti a garantire la responsabilizzazione dei soggetti istituzionali e degli amministratori.

Motivo per cui, al di là dell’ingente mole di risorse disponibili, da una situazione così complessa si può uscire solo attraverso una strategia condivisa da tutte le amministrazioni: cooperazione e coordinamento tra le istituzioni coinvolte nella pianificazione territoriale, incentivi alla aggregazione di enti locali e forme di condivisione di figure professionali necessarie per incrementarne l’efficienza, razionalizzazione dell’attività amministrativa, dell’organizzazione burocratica e della ripartizione delle risorse tra le istituzioni, individuazione di precisi e chiari obiettivi di performance per enti, amministratori e dipendenti pubblici riguardo alla manutenzione del territorio, alla repressione dell’abusivismo e all’efficienza nell’applicazione delle norme urbanistiche e nella gestione delle risorse, controlli efficienti, premi e incentivi a favore delle amministrazioni virtuose, sanzioni a carico degli enti, amministratori e funzionari inadempienti.

Dario Immordino

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