Al Teatro Stabile di Catania il debutto in prima nazionale. Un testo inedito "irriverente, paradossale e divertente" adattato dal figlio Claudio
CATANIA – Giuseppe Fava “torna” in teatro con il debutto in prima nazionale di un suo testo inedito, “Il Vangelo secondo Giuda”. Lo spettacolo, il cui adattamento e regia sono affidate a Claudio Fava, andrà in scena nella Sala Futura del Teatro Stabile di Catania da oggi a domenica 23 febbraio e vedrà sul palco David Coco, Maurizio Marchetti, Antonio Alveario, Manuela Ventura, Liborio Natali, Alessandro Romano e Matteo Ciccioli.
“Il Vangelo secondo Giuda” è un testo che si permette due fondamentali disobbedienze. La prima, la più imprevedibile: lo sguardo e la voce di questo Vangelo sono quelli dell’ultimo tra gli ultimi, il reietto per definizione, ovvero Giuda. Eppure, forse proprio per questo sguardo che arriva dai margini, la storia prende un’altra direzione, smarrisce la sua sacralità e si umanizza, si fa carne e sentimenti, pensieri e miserie, paure ed allegrie. Com’è la vita, quando esce dal tempio e incontra le donne e gli uomini.
L’altra disobbedienza è l’aver proiettato questa storia ai giorni nostri: precipitati dai loro piedistalli, il Maestro e gli apostoli adesso sono attorno a noi, con difetti e rabbie, adulazioni e presunzioni che sono anche i nostri.
La regia di Claudio Fava – che abbiamo intervistato in vista della prima – ha voluto restituirci “una rielaborazione paradossale, abbastanza ironica e irriverente di un Vangelo immaginario che ha come protagonista Giuda, ma non ha nulla dell’andamento tradizionale dei Vangeli. È una riscrittura, volutamente paradossale, delle cose che accaddero dal punto di vista del reietto, del colpevole, del traditore, cioè di Giuda, con l’intenzione di raccontare la condizione umana di quest’uomo, il modo in cui lui ci rassomiglia e noi gli rassomigliamo, la sua imperfezione, che è il suo peccato ma che è anche la sua libertà, la sua umanità profonda rispetto al rigore, alla disciplina e anche un po’ alle finzioni che stavano nelle corde degli altri apostoli. Tutto questo con una rilettura che non raccoglie dai Vangeli per riproporre ma costruisce una sorta di percorso immaginario di questo Giuda dal momento in cui incontra gli altri apostoli fino al momento del tradimento finale. È un’opera buffa, mettiamola così”.
Quando Pippo Fava scrisse questo testo?
“Lo scrisse agli inizi degli anni Ottanta. È un testo inedito, mai rappresentato, rimasto ad una prima stesura sul quale ho lavorato parecchio solo per dare una dimensione drammaturgica ed anche per aggiungere, costruire un racconto nel racconto, per cui alla fine è venuta fuori una scrittura a quattro mani, che è una bella sfida e una cosa divertente. È la prima volta che mi capita di dovere intervenire sulla scrittura di mio padre per affiancarla alla mia però era indispensabile perché questo testo, che era ancora in una dimensione molto grezza, potesse espandersi e trovare un proprio respiro”.
Il suo adattamento ha comportato qualche “sacrificio” rispetto al testo originale?
“È un testo diverso che tiene sì insieme il corpo originario ma lo espande in altre direzioni. Non si è trattato di una riduzione in termini quantitativi ma di una riscrittura e di un adattamento teatrale”.
Cosa secondo lei spinse suo padre a scriverlo?
“L’idea della condizione umana nella sua imperfezione, nella sua fragilità ma nello stesso tempo nella sua libertà di fronte alle grandi tensioni emotive della vita, prima fra tutte quella della morte. Due dei personaggi in scena, Maddalena e la moglie – inventata naturalmente – di Giuda rappresentano due momenti diversi della condizione femminile che poi risulta vincente in questo testo perché è l’unica che abbia davvero consapevolezza di sé rispetto alla misoginia, al maschilismo che un po’ è anche nella storia degli apostoli, nella vicenda di Giuda e più in generale in quella dell’uomo quando si fa maschio rispetto alla donna. In questo è un testo molto moderno, profetico, anticipatore”.
Quanto di Pippo Fava c’è in questo testo?
“C’è tutto sia del padre che del figlio. Abbiamo avuto scritture molto diverse per impronta, per stile, per tempi. Il mio tempo non era il suo tempo. Entrambi abbiamo fatto lo stesso mestiere – giornalista, scrittore, drammaturgo – ma con due temperature diverse nella scrittura. Ciò nonostante, abbiamo una curiosità identica, che ci ha sempre tenuti insieme e che ho ereditato da lui e cioè la curiosità per la condizione umana: le fragilità, le passioni, le disobbedienze ancor più che le eresie”.
Quanto invece c’è di lei?
“Molto. È un po’ la traccia che tiene insieme tutte le altre mie scritture: cercare di muoversi oltre i binari, andare a guardare anche da forestiero vite degli altri, vite diverse, vite lontane. Quella di Giuda è una vita apparentemente lontana dalla nostra ma in realtà la sua tentazione, la sua solitudine, la sua disperazione, la sua rabbia, la sua passione, la rivendicazione del suo diritto a sentirsi libero fanno parte un po’ di questo tempo e lo rendono un personaggio autentico, vivo, molto più della rigidità quasi anchilosata della ciurma degli apostoli. In questo c’è più vita, c’è più verità nella storia di uno come Giuda”.
Un’ultima domanda. Se dovesse scegliere solo tre parole per descrivere quest’opera, quali sarebbero e perché.
“Irriverente, paradossale e divertente. Perché è uno spettacolo nel quale si ride molto anche se può sembrare un paradosso e perché forse la risata è anche legata all’irriverenza, al modo in cui la riscrittura della storia di questi apostoli, del loro rapporto col Maestro e del ruolo di Giuda, è totalmente diversa da quella che c’è stata consegnata in questi 2000 anni”.