Less but better. Il design e la partecipazione attiva, per un Paesaggio Risonante - QdS

Less but better. Il design e la partecipazione attiva, per un Paesaggio Risonante

Luigi Patitucci

Less but better. Il design e la partecipazione attiva, per un Paesaggio Risonante

giovedì 05 Agosto 2021

In questa rubrica, mi sono impegnato a voler mettere in luce le traiettorie d’efficacia inerenti il recupero, la ri-funzionalizzazione e la riqualificazione ambientale, e sociale, di brani del tessuto urbano o di interi contesti ambientali, particolarmente esposti al degrado. A ragione di ciò, ho operato(e continuerò a farlo per voi, miei cari lettori) il coinvolgimento di alcuni protagonisti di tali pratiche, di efficaci processi di determinazione di traiettorie di solvimento di problematiche complesse, attraverso lo strumento del progetto.
Oggi ho inteso raccogliere le riflessioni di Alessandro Villari, architetto, designer e docente di Architettura del Paesaggio presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e, nomade per vocazione culturale, quale autore di numerose avventure connesse all’esercizio degli strumenti propri della cultura del progetto, ad ogni latitudine del pianeta.

Un ritratto di Alessandro Villari
Di recente, sono solito intrattenermi con lui, in merito alle vicende che lo impegnano in numerosi contesti, particolarmente degradati, in diversi paesi del continente africano, progetti messi in campo mediante il lavoro sapiente dell’Associazione Architetti senza Frontiere Sicilia-Calabria. Un municipio in una cittadina di 20.000 abitanti sulle sponde del Lago Vittoria, adesso ubicato in due container, innestati in uno scenario sostanzialmente costituito da migliaia di slums; la posa della prima pietra di un complesso architettonico in Ghana, che diverrà presto una fabbrica di sapone nero (realizzato mediante processi naturali e rispettosi del contesto ambientale prescelto) che, darà lavoro ad una cooperativa di 1360 donne africane, realizzando una serie di benefici indotti in un’ampia porzione di territorio circostante; etcetera ed etcetera…, giusto per citarne gli ultimi episodi in ordine di arrivo. Con Alessandro Villari siamo amici da un trentennio, ed insieme abbiamo lavorato alla costituzione di alcuni Design Lab, non ultimo, quello per l’azienda TorrisiCrea, imperniato tutto proprio sulla produzione di serie di dispositivi (…ecco come amiamo chiamarli!) per lo spazio pubblico. Siamo partiti in quell’avventura da una serie di considerazioni. Nella fattispecie legate alla funzione di servizio, che noi designer, siamo chiamati ad esercitare nei confronti delle mutate esigenze della utenza planetaria. Ovvero sulla convinzione di doverci impegnare nella produzione della costruzione di un tessuto sociale più robusto, utilizzando competenze ed abilità universalmente riconoscibili, e rintracciabili, nella comunità globale, per reinventare la nostra realtà, la nostra stessa civiltà. Sulle possibilità di poter accogliere e metabolizzare, fare nostro, il potere connesso all’esercizio del gioco, quale potenziale energetico immenso, gigantesco e, disponibile, per poter produrre cambiamenti possibili, felicità possibile, reinvenzione.
Ma, nonostante il nostro grande afflato, sono sempre pronto a porre al nostro designer una sommatoria di entusiasmanti, quanto gravosi, quesiti.

Luigi Patitucci. Bene, Alessandro, quali sono, secondo te, le traiettorie di induzione alla partecipazione attiva della utenza, che noi designer possiamo innestare attraverso l’esercizio, gigantesco ed illimitato, inesauribile, del potenziale connesso alla frazione ludica, giorno per giorno, istante per istante? È un potenziale energetico incommensurabile ed estremamente efficace, se ci pensi……, basterebbe metterlo in esercizio con le opportune procedure.

Alessandro Villari. La partecipazione attiva è una condizione indispensabile quando pensiamo al progetto. È anche vero che per molti anni è stata una password generale nei processi di progettazione. Credo che tale azione, soprattutto se legata alla nostra capacità di giocare in modo sapiente sulla realtà sia la giusta condizione per elaborare ipotesi di futuro condivise. Emerge con forza la necessità di riflettere su quali modelli di futuro possibile ci aspettiamo. Il progetto, proprio per sua peculiarità, è lo strumento capace di rendere i nostri sogni realtà. Si parla molto di un nuovo termine “gamification” che riguarda l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti non ludici. Attraverso il gioco e la tecnologia digitale forse è possibile avviare un processo di partecipazione attiva dei cittadini che possono disegnare, se ben guidati, i luoghi del vivere in comune.

L.P. Nei miei scritti parlo spesso di Design Therapy, quale nuovo ‘bisogno’, in un’era in cui tale termine è stato destituito dal termine ‘desiderio’, ovvero della realizzazione di serie di azioni concrete nella nostra vita reale, per la realizzazione di un Paesaggio Risonante. Come pensi possa essere accolta, dagli enti competenti, tale procedura di realizzazione di uno scenario attivo nei nostri contesti territoriali?

A.V. Tra bisogni e desideri ci sarebbe molto da discutere. La cultura occidentale non ha più nessuna idea di cosa sia i bisogni soprattutto quelli primari legati alle necessità fondamentali da soddisfare per garantirsi la normale sopravvivenza. Come sai lavoro da molti anni in Africa a favore delle comunità svantaggiate dove spesso mancano le beni fondamentali (cibo, medicine, acqua….). Frequentando questi territori ho riscoperto il senso etico del nostro lavoro che è quello di sostenere le comunità per dare un senso ad un futuro nel quale siano ridotte le disuguaglianze territoriali. Immagino che anche nei nostri contesti è necessario riscoprire, con altre modalità, le coordinate dei veri bisogni e il design deve essere lo strumento indispensabile da percorrere nella direzione di una responsabilità civile.

L.P. Quali limiti possiede uno strumento di pianificazione e governo dei nostri contesti ambientali, quale è quello del PRG che, per definizione ha una durata illimitata, in un’era in cui i profili d’esercizio sempre più dichiarati, delle volte con grande spudoratezza e poca adesione ai feroci parametri propri della realtà concreta, sono quelli propri della Smart City?

A.V. La città intelligente è il nuovo traguardo a cui aspirano le grandi aree urbane nelle quali, con una grande presenza di tecnologia e strumenti di comunicazione attiva, si pensa sia possibile migliorare la vita dei cittadini. Non sono un nativo digitale, per ovvie ragioni anagrafiche, e ti confesso che molto spesso, seppur molto curioso, mi smarrisco davanti ai vertiginosi progressi tecnologici. Penso che gli attuali strumenti urbanistici legati alla cultura del ‘900 siano ormai desueti. Erano piani elaborati in un contesto temporale nel quale non si aveva idea dello sviluppo tecnologico che nel breve periodo di 50 anni avrebbe cambiato radicalmente tutto. Non credo sia possibile immaginare che l’evoluzione della città resti legata ad uno strumento obsoleto come il PRG. Serve ripensare alle nostre città attraverso strumenti agili e costantemente implementabili in aderenza ai rapidi cambiamenti dei comportamenti urbani per un buon governo del territorio ed uno equilibrato sviluppo delle città. La crescita urbana va immaginata per interventi puntuali valutabili di volta in volta avendo come sottofondo generale la riconnessione della città alla natura. Lo so è un vecchio discorso nato già negli anni ‘70 che ogni tanto rigurgita nel mondo culturale. Ma è la via necessaria.

L.P. Come si conciliano questi due profili d’intervento, in un contesto urbano che non può fare più a meno di dover accogliere nella determinazione dei suoi parametri d’ingaggio e d’esercizio termini quali “temporaneità”, “provvisorietà”, “mutabilità”, “impermanenza”?

A.V. Siamo una società guidata dal principio di impermanenza. Se penso agli social, che hanno occupato un tempo importante delle nostre giornate, capisco subito quanto sia effimera la nostra socialità. Le immagini di Instagram passano sui monitor dei nostri telefonini per svanire dopo appena qualche secondo. La stratificazione tra realtà ed effimero sta diventando strutturale, per questo non possiamo più rifiutarla o relegarla alla sfera tecnologica, dobbiamo affrontarla. I mondi artificiali con cui interagire attraverso i nostri dispositivi ci permettono di superare i limiti materiali e fisici della realtà. Il paesaggio urbano e quotidiano in cui trascorriamo le nostre vite è permeato dalla tecnologia, dal digitale, dal virtuale. Forse un po’ troppo. Non sono riluttante verso la tecnologia e il mondo virtuale ma cerco di capire quale potrebbe essere un equilibrio possibile in cui la realtà non sia sovrastata dalla virtualità.

L.P. Con il salto nel nuovo millennio, si è mostrata sempre più irrevocabile la questione del ridisegno, in maniera continuata, del nostro scenario di prossimità, specie alla luce della comparsa di nuove problematiche di relazione dinamica tra entità ed individui presenti in un contesto urbano, ora resi particolarmente pressanti in ragione della presenza e dell’alternarsi di crisi economico-finanziarie, ambientali, sanitarie.

A.V. Il paesaggio urbano resta l’unico luogo in cui incontrarsi fisicamente e dove è possibile svolgere i comportamenti, seppur mutati, che hanno da sempre determinato quei processi di socialità necessari al nostro modo di abitare la città. Appare evidente che questi luoghi hanno bisogno di traiettorie di progetto flessibili che amplifichino tale modello di socialità che va verso un declino apparentemente irreversibile. In questi giorni penso alle distanze sociali, fissate da decreti ministeriali, che hanno imposto nuovi e dilanianti modelli di comportamento della nostra vita pubblica e privata. Come è evidente lo scenario della prossimità sta lentamente lasciando il posto ala quello del contatto virtuale. Cosa fare dunque? Prendo in prestito il termine usato da Georges Perec, nel libro Specie di spazi, bisognerebbe progettare spazi senza funzione “afunzionali” che nella città multiforme e multifunzione diventino luoghi di decompressione urbana. Siamo ormai troppo abituati a pensare a spazi concepiti per qualcosa. Io penso che il vuoto assoluto sia l’unica via possibile per rifondare gli luoghi urbani dove inventare, ora dopo ora, modi di vivere lo spazio. Per questo amo lo spazio vuoto di piazza Jemaa el Fna a Marrakech, in quanto spazio disponibile che la gente carica di funzioni ogni giorno e ogni diversa ora del giorno. 6. Pensi che la soluzione possa passare attraverso la costituzione di una costellazione di Design Lab Permanenti, parte di una più grande sovrastruttura, capace di poter accogliere, in tempo reale, istanze e professionalità altamente specialistiche al suo interno?

A.V. Fare una esperienza continua può essere una modalità di lavoro utile ad intercettare, in tempo reale, tutte le evoluzioni della società. Stare costantemente connessi con i fenomeni sociali che cambiano continuamente o, a volte, si assestano su determinate frequenze di tendenza mi pare un dovere per chi si occupa del progetto in senso generale. Una specie di formazione permanente, relazionata alle realtà territoriali sia produttive sia di rappresentanza delle collettività, in grado di essere rappresentativa delle pulsioni che le diverse comunità esprimono dei diversi territori.

L.P. Dal cucchiaio alla citta’.
A mio avviso, questa frase potrebbe essere il necrologio di tutta la stagione dell’utopia modernista, spazzata via dalla pochezza dei suoi contenuti umani. In ogni caso, oggi potrebbe essere mutuata in dal cucchiaio alla citta’ e dalla città al cucchiaio!. Chiudendo il cerchio, una volta per tutte, senza indugi, con la ferocia, benefica ed augurale, persino formativa, del buon padre di famiglia. Tu sei docente anche al Master in Product Design Integrato “Designland. Italian Design Therapy e Geografia del Benessere”, con ADI presso Harim accademia Euromediterranea, sei condannato a vivere a contatto con quelle che saranno le generazioni dei futuri designer, questa nuova generazione di designer sarà chiamata all’assolvimento di un compito tanto entusiasmante quanto gravoso, quello della realizzazione di un nuovo scenario esistenziale. Quale potenziale di accoglimento di questa sfida, tutta imperniata attorno alle questioni di progetto, intravvedi in questa generazione?

A.V. I rapidi cambiamenti impongono la capacità di adattarsi rapidamente. Di fatto si tratta di una operazione a cuore aperto che purtroppo non ha una data di fine. Penso ad una vertigine nel vuoto. Mi viene in mente un possibile scenario nel quale la tecnologia resta dentro mura delle nostre case e che le nostre città, scollegate dal mondo virtuale, con lo spazio pubblico che diventa il luogo dove poter staccarsi da tutti i dispositivi tecnologici. Penso alla città come una grande giardino pubblico fatto di pietra, cemento, mattoni e natura ne quale liberarsi della oppressione dei dispositivi tecnologici. Luoghi di decompressione dallo stress tecnologico. Si una utopia mi rendo conto in assoluto contrasto con le teorie che vorrebbero un mondo continuamente connesso.

L.P. Quali sono le loro traiettorie d’ingaggio, non percepite dai designer che li hanno preceduti?

A.V. Non credo esistano delle relazioni tra generazioni di designers. Ognuna generazione è frutto del suo tempo. Molta della storia del design, penso a quello italiano, è stata determinate nel periodo che va dagli anni Sessanta agli anni Settanta. C’era bisogno di molte cose utili per migliorare le condizioni di vita della gente e i designers di quel periodo accolsero bene questa sfida restituendoci una miriade di strumenti urbani e dispositivi domestici che hanno ridisegnato le modalità di vita per intere generazioni. Oggi è un’altra storia. Parlavamo prima dei bisogni. Non ne abbiamo la necessità, almeno nella nostra cultura occidentale, di molte cose nuove da inventare. Tutto si è spostato sul web e sulla connettività totale e continua offerta dai social media. Non è facile prevedere su quale trend si assesterà il design del futuro è necessario stare in continuo ascolto per interpretare i veloci cambiamenti che si sono manifestati nell’ultimo decennio.

L.P. La Natura si riappropria del suo potenziale creativo, esibendo una ricchezza di contenuti, di elementi generativi estremamente seducenti e, di una forza devastante, ed io non nutro ormai alcun dubbio, sull’inefficacia di un mondo troppo progettato, troppo disegnato, un mondo ostile ad ogni possibilità di riconoscimento del vivere umano. Quale è il tuo pensiero in merito a tale riflessione?

A.V. Concordo con te sulla inefficacia di un mondo ipertrofico sul piano del design. Il titolo di questa intervista è abbastanza eloquente per appunto. Dall’utile all’inutile il passaggio è stato rapido e indolore per alcuni. Le tendenze della progettazione avendo risposto a tutte le esigenze primarie adesso cavalcano l’onda del superfluo. Vedo cose che non avrei potuto immaginare. Progetti autocelebrativi che fanno sfoggio di ricchezza, benessere, lusso ma, molto spesso, anche di una banale inutilità. Forse questo è determinato da una crisi profonda del nostro mestiere. Nei momenti più bui sia il design che l’architettura hanno manifestato la loro debolezza proponendo immagini eccessive. Il portato della cultura dei bisogni e delle necessità resta lontano da ogni possibile forma di pensiero progettuale. Penso all’inutilità del Bosco Verticale di Milano. Il progetto si auto esibisce ostentando una adesione alle questioni ambientali. Si presenta come panacea di tutti i guasti all’ambiente e alla natura che abbiamo provocato. È diventato lo specchio per le allodole di molti nuovi progetti urbani. “Si tratta, in verità, di una costruzione standard riempita di “verde”” come scrive Michael Jakob su Doppio Zero e continua “…la decorazione che veste da ogni parte la torre è stata confusa con la sua sostanza, perché perfettamente adattata agli standard dell’estetica attuale”. Si tratta, con evidenza, di puro marketing. Ci vuole un coraggioso progetto che riporti la natura dentro le nostre città. Soprattutto al SUD.

“In qualunque caso si può simulare, tranne quando si tratta dei luoghi. Un uomo, in ogni condizione, deve potersi mettere in un angolo con la certezza che è il suo, almeno per un pò, o che nessuno lo manderà via di lì. Tutto il resto viene dopo”.

L.P. Questa frase, tratta da “Un uomo temporaneo”, di Simone Perrotti (Frassinelli, 2015, NdA), ci introduce al quesito inerente all’attualità del concetto di Genius Loci ed al riconoscimento, da parte degli individui sociali, in una matrice identitaria legata al contesto ove si snoda la nostra esistenza. Cosa accade nell’era digitale, ha ancora senso parlare di taluni concetti, per noi dapprima considerati imprescindibili, nell’esercizio della questione di progetto?

A.V. Argomento ostico quello della riconoscibilità dei luoghi, che determina anche la appartenenza ai luoghi, nell’era digitale. Non dimentico mai che la casa è il luogo che fissa il nostro modo di abitare sulla terra. Pertanto, mi pare evidente che debba essere automatica l’azione di riconoscimento e di appartenenza. Senza tali azioni saremmo degli individui “apolidi” senza una vera cittadinanza nel mondo. Ma i luoghi sono fragili sempre in continua mutazione consumati e distrutti dal tempo e da noi stessi. Non esistono luoghi immutabili e quindi anche il processo di appartenenza ai luoghi o agli spazi deve essere continuamente confermato dal nostro mondo di guardare il mondo intorno a noi. Attraverso lo sguardo critico costruiamo lo spazio limitato interno a noi quello della prossimità che sentiamo nostro in processo continuo di adattamento e riconoscimento. Oggi esistono luoghi digitali, cioè non esistono nel senso fisico, ma esistono nella dimensione virtuale. Sono luoghi effimeri non nostri che ci vengo dati è per i quali non nutriamo nessun senso di legame. Stanno li. Qualcuno li ha pensati per noi. Stanze affollate di immagini fugaci.

L.P. Conosco il tuo designer preferito, è Dieter Rams.
E so pure che hai indotto i giovani allievi ad analizzarne i criteri d’intervento, per la costituzione di un loro personalissimo approccio di metodo nell’ambito di diverse discipline di progetto, differenti ambiti applicativi. Puoi spiegarci il motivo?

A.V. I 10 principi del buon design elaborati da Dieter Rams per me hanno significato molto durante l’elaborazione dei miei progetti. Ritengo sempre utile rileggerli ogni qualvolta sono impegnato a creare architetture, paesaggi o oggetti di design. Rams che ha lavorato quasi esclusivamente all’interno del Product Design della Braun ci ha lasciato una immensa eredità utile a stimolare in senso razionale le questioni che attengo al buon modo di progettare. La filosofia minimalista di Rams si spiega con molta chiarezza nella sua dichiarazione “Less but better” che ha anche avuto un impatto incredibile sulla comunicazione di Steve Jobs e della Apple. Quando posso racconto sempre a i miei studenti il principi di Rams e come tali dichiarazioni sia applicabili, in senso generale, a qualsiasi azione di progetto.

L.P. Il tuo oggetto preferito?
A.V. Il Cavatappi. Un utensile piccole e immutabile nel tempo. Non riesco mai a rinunciare ad un buon bicchiere di vino e al piacere di stappare una nuova bottiglia.

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