Così il presidente della Commissione regionale antimafia dell’Ars sui depistaggi. “Responsabili coloro che accettarono, in silenzio, regole violate, procedure forzate”
PALERMO – A qualche giorno dalla relazione della commissione regionale antimafia arriva il commento del suo presidente Claudio Fava, che rivela che mai vi sono state così tante anomalie, irritualità e forzature come nell’indagine sulla morte del magistrato (Paolo Borsellino) e degli uomini della scorta. “La relazione che abbiamo approvato in Antimafia sui depistaggi (al plurale) nelle indagini su via D’Amelio – dice Fava – non restituisce clamorose verità ma una evidenza, questa sì, che ha a che fare con noi siciliani: molti capirono, molti sapevano, molti tacquero. Accanto alle “menti raffinatissime” che organizzarono assieme a Cosa Nostra la strage e il depistaggio, c’è una folla di minori (magistrati, poliziotti, funzionari dei servizi, capi e vicecapi di varia natura, prefetti, ministri…), tutti in varia misura colpevoli perché tutti consapevoli”.
Dichiarazioni forti che colpiscono fortemente le istituzioni della giustizia. Il commento di Fava è senza peli sulla lingua: “Colpevoli di aver fatto finta di nulla di fronte alle scelte dissennate e incomprensibili di quelle prime indagini che determinarono, come si usa ormai dire, il più clamoroso depistaggio nella storia d’Italia – dice Fava -Colpevoli per non aver interrogato mai Paolo Borsellino a Caltanissetta per 57 giorni dopo la morte di Falcone; colpevoli per aver tollerato che la direzione delle indagini venisse di fatto delegata – contra legem – al Sisde e a Contrada; colpevoli per non aver voluto credere alle ritrattazioni di Scarantino; colpevoli per aver sottratto ai processo per due anni i verbali dei confronti in cui Scarantino veniva sbugiardato da tre collaudati collaboratori di giustizia; colpevoli di aver fatto finta di nulla di fronte alle forzature investigative di La Barbera e del suo gruppo “Falcone-Borsellino”; colpevoli di aver omesso, dimenticato, travisato, preteso, forzato come se unico scopo dell’indagine fosse quello di arrivare ad una rapida – per quanto falsa – verità processuale”.
In pratica non un responsabile per i depistaggi, ma un concorso di responsabilità per Fava, “che poco ha a che fare con il codice penale, molto con la coscienza di tutti coloro che accettarono, in silenzio, regole violate, procedure forzate, documenti omissati”.
Fava si è detto orgoglioso che un frammento di verità giunga da una istituzione politica siciliana, e non dalla sentenza di un tribunale. “Che siano trascorsi 26 anni senza trovare il coraggio di formulare talune domande e pretenderne le risposte è motivo di smarrimento. Cercare la verità non è un pranzo di gala né un allegro dibattito sui social: è sangue e merda, dolore e pazienza, rabbia e fatica. Non è mai un regalo, la verità: se la vogliamo, ce la dobbiamo andare a prendere – ha concluso Fava – E ce la dobbiamo meritare”.