Totò Schillaci era mondiale, anche per la fama che questo palermitano ebbe in tutto il mondo
Totò Schillaci era mondiale, non solo per il suo modo assolutamente istintuale di giocare, non solo perché fu il capocannoniere del Mondiale 90, ma per la fama che questo palermitano ebbe in tutto il mondo. Totò è stata l’unica icona, palermitana, italiana, nel mondo. Se si pensa che allora non c’era il web lui aveva più seguito di Taylor Swift.
Dall’America al Giappone, in cui era Totò San. Schillaci era un mito ovunque, giocò all’Inter e alla Juventus, il suo periodo d’oro. Era un attaccante d’altri tempi, aveva il fiuto di Gerd Müller sotto porta, lo scatto bruciante di Butragueño, la forza derivante dal “pititto” di un Boninsegna. E segnava, segnava tanto, dai tempi dell’Amat, la gloriosa seconda squadra di Palermo. Poi ci fu il tentativo di passaggio al Palermo, ma i dirigenti rosanero furono avari e decisamente poco lungimiranti, costava poco ma fecero comunque la “minchiata” di non comprarlo. In seguito venne venduto per 6 miliardi alla Juventus, grande pensata dei presuntuosi palermitani. Partì in direzione Messina alla corte di Franco Scoglio, detto il Professore, è a suon di gol passò dalla C2 alla serie A. Un ragazzo del Cep, borgata emarginata di Palermo arrivava nel massimo campionato. La sua voglia di riuscire era allucinata, i suoi strappi e cambi di direzione erano al fulmicotone, esplosivi, i suoi tiri erano tanto “arraggiati” che gonfiavano la rete avversaria della forza del riscatto di chi per nascita deve “leccare la sarda” per la fame, come tanti, praticamente tutti, nel suo mondo di borgata. Borgata che non ha mai tradito, amava il Cep, amava la sua città in maniera viscerale, nonostante fosse conosciuto in maniera globale, Palermo restava un chiodo fisso piantato tra i suoi occhi fiammeggianti.
Una seconda occasione il Palermo la ebbe di schierare in maglia rosanero, i suoi amati colori, i più chic del calcio mondiale, il fenomenale campione palermitano. Ce lo racconta magistralmente Carlo Brandaleone, storico cronista del Renzo Barbera. Fu al ritorno dal Giappone nel 2000, aveva 36 anni ed il Palermo era in serie C. Lui si offrì di giocare anche a gettone, pur di avere l’orgoglio, di colmare il desiderio del bambino che aveva dentro che inseguiva i suoi miti. Nulla, niente, una società di serie C non voleva, quasi gratis e senza impegno, il calciatore palermitano più forte di sempre, un capocannoniere del Mondiale, un uomo che all’estero era famoso quanto la “pizza”. Prese invece Palumbo, come se un pescatore davanti ad un dentice gigante preferisca invece un “palumbo”.
C’è una nemesi ineludibile in questa vicenda tutta palermitana in cui nemo profeta in patria, e se devi fare carriera devi emigrare, a cominciare dal Presidente della Repubblica. Se a Palermo non hai gli “appoggi” giusti, le giuste amicizie, altoborghesi, o magari mafiose, non entri, nemmeno se sei un Dio del calcio. Nemmeno se porti una notorietà che una squadra di C nemmeno se la sogna. Totò Schillaci voleva Palermo ed il Palermo, lui aveva l’anima palermitana, l’aveva così tanto che si candidò, con Berlusconi nel 1997, al consiglio comunale con Miccichè, candidato sindaco, che lo convinse ad entrare in lista. Vinse Orlando, anche se Totò con i voti dei suoi fans entrò in consiglio. E forse pagò, anche se poi più tardi si dimise, quel suo schierarsi contro il regno orlandiano, in una città che riconosce non il talento ma il potere.
Oggi rispetto a quell’epoca il tempo sembra, forse, essere passato. Ma se la città di Palermo vuole celebrare il suo figlio più famoso deve fare due cose, facili anche per una città degradata. Intitolare a Schillaci viale del Fante, non pensiamo che la fanteria si possa offendere, e prendersi carico della scuola di calcio Ribolla, che Totò aveva tirato su con tanta dedizione, in un quartiere che ha poco o nulla. Palermo glielo deve.
Così è e se vi pare