In Italia ci sono 400 mila imprese legate all’industria della carne che hanno un notevole impatto sull’ambiente. Ma anche sulle persone: ancora nel 2022 resta ampia la somministrazione degli antibiotici, sebbene il dato si sia ridotto di oltre il 60% dal 2010
Sostenere di amare gli animali e di voler difendere l’ambiente, adottare un cane, dirsi preoccupati per la siccità, bere un bicchiere di latte ogni mattina e festeggiare la domenica con una grigliata tra amici, non prima di aver fatto una degustazione di formaggi rigorosamente locali. È la vita di un italiano onnivoro qualunque, che a sua insaputa fa cortocircuito con i suoi stessi interessi e che continua a rappresentare il 90% dei cittadini del Belpaese, consumando mediamente 77 kg di carne l’anno e nuocendo alla salute propria, degli animali e del clima.
Sono oltre 400 mila gli allevamenti in Italia secondo i dati diffusi dall’Anagrafe nazionale zootecnica aggiornati al 30 giugno scorso. Il numero di attività è di oltre 750 mila unità, con un impiego di oltre 400 mila operatori. Solo il 10% delle attività riguarda gli allevamenti familiari: 80.380 attività che si occupano esclusivamente di apicoltura.
In Sicilia – sempre secondo l’Anagrafe – si contano 25.299 stabilimenti, per lo più dedicati all’allevamento di equidi (31, 64%), ovini e caprini (22,57%), bovini (21, 91%), suidi (17,02%) e avicoli (0,77%). Questi dati fanno della regione la sesta per numero di allevamenti, dopo la Lombardia (36.511), il Lazio (35.885), la Campania (31.092), la Sardegna (28.466) e il Veneto (28.341). Quanti di questi siano “intensivi” non è dato sapere, data la mancanza di una definizione giuridica chiara del termine, ma è facile desumere come parte di essi cerchino di sfruttare al massimo le loro “potenzialità”, impiegando tutti gli escamotage consentiti per far crescere e macellare il più alto numero di animali nel minor tempo possibile, per garantire un’ingente produzione di latte e derivati.
Dalla siccità all’antibiotico-resistenza
La scorsa estate la Sicilia ha attraversato una crisi idrica senza precedenti che ha letteralmente prosciugato il lago di Pergusa e lasciato senz’acqua l’Agrigentino. In tutta la Penisola il problema del cambiamento climatico mette a dura prova amministrazioni e cittadinanza locale. La comunità scientifica ha ormai accertato le dirette conseguenze degli allevamenti intensivi sull’ambiente, sul clima, sulla salute e sulle vite degli animali e degli umani, ma di una politica di riduzione degli allevamenti intensivi neppure l’ombra.
“Gli allevamenti impiegano il 70% dell’acqua consumata a livello globale, producono ingenti quantità di liquami, che vengono rilasciati su terreni e acque reflue producendo gas come metano, solforato, ammoniaca e composti volatili organici che restano nell’aria e vengono trasportati anche in luoghi distanti dagli agenti atmosferici – spiega Bianca Boldrini, responsabile area animali negli allevamenti Lav –. Proprio l’ammoniaca è considerata un inquinante primario, precursore del particolato atmosferico responsabile anche dell’insorgenza di alcuni tumori. Il 94% di quella prodotta in Italia deriva dall’attività agricola e resta la seconda fonte di polveri sottili dopo il riscaldamento”.
Demetra Onlus ha calcolato che, in un anno, le emissioni associate al ciclo di vita della sola carne bovina consumata in Italia equivalgono a oltre 18 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti. Accanto ai problemi legati alla qualità dell’aria, quelli relativi alle malattie infettive e all’antibiotico-resistenza: “Gli allevamenti sono luoghi insalubri, dove gli animali sono indeboliti dalle condizioni in cui sono costretti a sopravvivere, dalle mutazioni genetiche e dagli agenti patogeni che si sviluppano – continua Boldrini –. Il tasso di mortalità al loro interno è molto alto e, per cercare di supportare il tasso di sopravvivenza, gli allevatori somministrano antibiotici. Il consumo di carne comporta perciò una rischiosa diffusione dell’antibiotico-resistenza, che secondo molti scienziati sarà presto la prima causa di morte per gli esseri umani, e di possibili zoonosi come l’influenza aviaria. Per non parlare poi del consumo dei terreni e della deforestazione per far spazio alle colture di foraggio”.
Lo scorso giugno la decisione controcorrente della Danimarca, terza esportatrice di maiali in Europa, di imporre una carbon tax sugli allevamenti di bovini e suini. Adesso Lav chiede una riforma normativa a livello europeo che dimostri la presa di coscienza che il sistema stia collassando su se stesso. E chiede anche che l’Ue mantenga una promessa: “Nel 2018 la Commissione Ue ha fatto passare una proposta per il divieto dell’allevamento in gabbia – precisa – ma ha deluso le aspettative. Il Comitato dei cittadini promotore ha consegnato un ricorso alla Corte di giustizia per chiedere che l’impegno venga portato a termine”.
Antibiotici in diminuzione ma restano un problema
Sebbene in forte diminuzione, quello della somministrazione degli antibiotici, che ha come conseguenza diretta l’aumento della resistenza ai farmaci negli esseri umani, resta un tema su cui tenere alta la guardia.
Secondo il report del Ministero della Salute denominato “Dati di vendita dei medicinali veterinari contenenti sostanze antibiotiche” – che elabora i dati raccolti dal sistema di sorveglianza europea del consumo di antimicrobici veterinari (Esvac) – le vendite complessive di medicinali veterinari contenenti sostanze antibiotiche, stimati per l’uso in animali destinati alla produzione di alimenti, è diminuito considerevolmente, addirittura del 62,7%, tra il 2010 e il 2022, prendendo in considerazione le vendite in mg/Pcu, cioè un dato “normalizzato” con la Population Correction Unit che rappresenta un surrogato della popolazione animale a rischio. Per il suo calcolo, si moltiplica il numero di animali vivi e macellati, importati ed esportati, per il peso della specie/categoria – teorico e armonizzato – al momento più probabile del trattamento.
Come riporta il documento – va precisato prima di illustrare i dati – “non tutti gli antibiotici venduti sono impiegati nell’anno di riferimento sugli animali e molti medicinali veterinari sono autorizzati per l’uso in più specie”, per cui “non è possibile determinare quanto sia effettivamente impiegato, per singola specie/categoria animale”.
Quello che può darci un’idea del fenomeno dunque sono le vendite totali che risultano pari a 585,4 tonnellate (ripetiamo, solo la porzione ipotizzata come venduta per gli animali destinati alla produzione di alimenti) per l’anno 2022, con un trend in diminuzione confermato del 51,7% rispetto all’anno 2016, e del 11,5% rispetto al 2021.
Scendendo più nel dettaglio, le tonnellate di principio attivo sono messe in correlazione con la PCU italiana, la cui fonte dati è l’Eurostat (Ufficio statistico dell’Unione europea). Questo valore, come detto “normalizzato”, è pari a 157,5 mg/PCU, sulla base del quale possiamo andare a vedere cosa è maggiormente presente negli animali. Le tre principali classi vendute sono le penicilline (54,6 mg/PCU, 34,6%), le tetracicline (35,6 mg/PCU, 22,6%) e i sulfamidici (21,8 mg/PCU, 13,8%) che, insieme, rappresentano il 71,1% delle vendite totali nel 2022.
La forma farmaceutica più venduta è la soluzione orale, seguita dall’inoculazione intrammammaria per trattare la mastite delle specie da latte, costrette a una produzione continua, innaturale e intensiva. Le iniezioni sono invece la terza modalità di somministrazione degli antibiotici.
Il fenomeno però come detto è in diminuzione, con un’attenzione particolare a quegli antibiotici che la classificazione Ameg (Antimicrobial Advice Ad Hoc Expert Group) ha indicato come antimicrobici di importanza critica per la medicina umana e per cui è necessario ridurre il rischio di antibiotico-resistenza (-90,4%). Si tratta dei fluorochinoloni, di altri chinoloni, delle cefalosporine di 3a e 4a generazione e delle polimixine.
All’Ars proposta una moratoria sulla zootecnia intensiva in Sicilia
Lo scorso marzo Food for profit è stato proiettato all’Ars, prima sede istituzionale ad accoglierlo su suggerimento del parlamentare Ismaele La Vardera, ex capogruppo di Sud chiama Nord. Per l’occasione Giulia Innocenzi si è confrontata con giovani e politici, sostenendo intanto la necessità di uno stop ai finanziamenti pubblici di allevamenti intensivi e multinazionali dell’industria della carne, e diversi esponenti dell’opposizione si sono espressi a favore di una proposta di legge che normasse il fenomeno in Sicilia.
Mentre lavoravamo su quest’inchiesta abbiamo chiesto all’onorevole a che punto fosse l’iniziativa e lui si è premurato di presentare immediatamente all’Ars la mozione promessa. “Gli ingenti finanziamenti pubblici, di cui beneficiano le grandi aziende del settore degli allevamenti intensivi – si legge sul documento – potrebbero essere destinati in modo più efficiente per promuovere una transizione verso sistemi di allevamento più sostenibili, rispettosi dell’ambiente e del benessere animale”. Il riferimento è a tutti i bandi regionali e nazionali che attingono ai fondi comunitari, nazionali e regionali e che finanziano le aziende agricole che si occupano di allevamento.
“Sebbene la zootecnia intensiva possa sembrare economicamente vantaggiosa per le grandi aziende del settore – si legge ancora – il suo funzionamento è fortemente dipendente da input esterni, quali energia, mangimi e acqua, il che la rende particolarmente vulnerabile alle crisi ambientali ed economiche”. Prossimamente sapremo se effettivamente la proposta sarà accolta dal parlamento siciliano o meno.
Parla Nicolò Razza, direttore per lo sviluppo dei processi del “Cultured hub”
Carne coltivata. In Svizzera nasce un hub per facilitare la produzione
Viste le difficoltà nella produzione e nella commercializzazione della carne coltivata, tre grandi aziende svizzere del settore alimentare (Givaudan, Bühler e Migros) hanno deciso di creare una joint venture in grado di supportare le aspiranti industrie produttive nei loro sforzi tecnici per l’accesso al mercato. Abbiamo intervistato Nicolò Razza, direttore per lo sviluppo di processi del Cultured Hub, nonché dottore in bionanotecnologie con significativa esperienza tra innovazione alimentare e biotecnologie.
Com’è nato il progetto del Cultured Hub?
“Il Cultured Hub è nato con l’obiettivo di affrontare sfide globali urgenti, come l’insostenibilità degli attuali sistemi di produzione di alimenti di origine animale. Di fronte a una popolazione mondiale in rapida crescita – che si prevede supererà i 10 miliardi entro il 2050 – e a un aumento del consumo di carne, specialmente nei paesi emergenti, è essenziale ripensare il nostro sistema alimentare. La carne coltivata, insieme ad altri alimenti prodotti a partire da cellule, potrebbe rappresentare una soluzione sostenibile e sicura. Uso volutamente il condizionale ‘potrebbe’ perché, affinché questo nuovo metodo di produzione abbia un impatto positivo, è necessario che questi prodotti siano disponibili su larga scala e accessibili ai consumatori. Il Cultured Hub si propone di fornire alle aziende le strutture, la tecnologia e il know-how necessari per sviluppare la produzione di alimenti coltivati su vasta scala, come carne, pesce e frutti di mare. In questo modo l’hub mira ad aiutare le start-up a superare le barriere che attualmente impediscono la produzione su larga scala e l’accesso al mercato, contribuendo a un futuro alimentare più sostenibile, sano ed etico”.
Quali sono le difficoltà che impediscono la produzione e la commercializzazione di carne e pesce coltivati? Sono stati fatti dei passi in avanti?
“La carne coltivata viene prodotta in coltivatori (noti anche come bioreattori) che forniscono alle cellule animali le condizioni ideali di ossigeno, temperatura e nutrienti. In modo simile a come le vasche di allevamento forniscono l’habitat per la crescita dei pesci, i bioreattori replicano le condizioni necessarie per la replicazione cellulare. Sebbene questa tecnologia non sia una novità – essendo già utilizzata in altri settori – costruire impianti su larga scala richiede tempo e investimenti considerevoli, una barriera significativa per le aziende del settore. Il Cultured Hub cerca di abbattere questa barriera offrendo alle aziende l’accesso a infrastrutture pronte all’uso, evitando che ogni impresa debba costruire i propri impianti. Un’altra sfida riguarda i nutrienti necessari per far crescere le cellule, che includono sali, zuccheri e amminoacidi. Questi nutrienti, oggi, sono prodotti principalmente per settori come la biofarmaceutica, dove i costi elevati sono tollerabili grazie agli alti margini. Tuttavia, per l’agricoltura cellulare è fondamentale ridurre i costi di questi nutrienti. Alcune aziende hanno già iniziato a sviluppare alternative più accessibili, contribuendo così a ridurre il costo di produzione degli alimenti coltivati. Quindi, le difficoltà attuali legate alla commercializzazione non riguardano la sicurezza del prodotto, ma piuttosto i costi di produzione”.
A livello nutrizionale, carne e pesce coltivati mantengono gli stessi benefici di quelli allevati? Riescono a minimizzare i loro rischi per la salute?
“Sì, a livello nutrizionale la carne coltivata è essenzialmente identica a quella tradizionale, poiché entrambe sono composte da cellule. La differenza sta nel metodo di produzione. Un vantaggio importante della carne coltivata è la possibilità di controllare il processo produttivo, evitando l’uso di ormoni e antibiotici, spesso necessari negli allevamenti intensivi. Questo consente di ridurre alcuni rischi per la salute legati alla carne convenzionale, mantenendone al contempo i benefici nutrizionali”.
La proposta di legge delle associazioni. Serve un piano di riconversione
Lo scorso febbraio a Montecitorio è stata presentata la proposta di legge AC 1760 di Greenpeace Italia, ISIDE – Medici per l’ambiente, Lupo, Terra! e WWF Italia, attualmente in attesa di calendarizzazione in parlamento. Il suo obiettivo è quello di istituire una moratoria all’apertura di nuovi allevamenti intensivi e all’aumento del numero di animali allevati in quelli già esistenti, di un piano di riconversione del comparto – con un fondo dedicato ai finanziamenti –, di passare a un modello agricolo più sostenibile, con un uso efficiente delle risorse, la creazione di filiere per garantire il giusto compenso a lavoratori e aziende, l’accesso a un cibo sano e di qualità. A partecipare all’iniziativa esponenti politici di partiti anche antagonisti, come Eleonora Evi del Pd e Michela Vittoria Brambilla di Noi Moderati (prime firmatarie), Deborah Bergamini di Forza Italia, Angelo Bonelli di Avs.
In attesa di una nuova normativa nazionale, non mancano le iniziative locali. La sindaca di Viterbo Chiara Frontini ha annunciato che il Comune si doterà presto di un regolamento per disciplinare gli allevamenti intensivi, di concerto con associazioni, imprenditori, comunità locale.
Ma ora anche l’Italia dovrà recepire la direttiva Ue sui grandi allevamenti
Intanto il Parlamento europeo lo scorso marzo ha approvato un nuova direttiva Ied (Industrial Emission Directive) che punta a ridurre le emissioni nocive degli impianti industriali e dei grandi allevamenti di suini e pollame. Gli allevamenti di suini presi in considerazione sono quelli che allevano almeno 350 animali, mentre gli allevamenti avicoli sono quelli che allevano almeno 300 unità da uova o almeno 280 unità se da carne. Entro la fine del 2026 l’esecutivo Ue potrà valutare se estendere le prescrizioni anche agli allevamenti di bovini. Restano escluse dall’applicazione le aziende agricole estensibile, quelle biologiche e quelle che allevano animali per uso domestico.
Quali sono le sanzioni previste per le violazioni? Ammende proporzionate alla gravità dell’infrazione, sospensione dell’attività fino al raggiungimento della conformità, obbligo di riparazione dei danni causati all’ambiente e alla salute pubblica, piani di azione correttiva imposti dalle autorità competenti.
La timeline degli obblighi è ben precisa: entro il 2025 gli stati membri dovranno recepire la nuova normativa, entrata in vigore lo scorso 4 agosto, nel diritto nazionale; entro il 2028 le industrie dovranno implementare le migliori tecniche disponibili (BAT) aggiornate; entro il 2030 dovranno presentare e attuare i piani di trasformazione aziendale.
Attraverso la creazione di un portale Ue sulle emissioni industriali i cittadini potranno accedere ai dati relativi a tutte le licenze Ue e alle attività inquinanti locali. Tra le novità più significative della direttiva 2024/1785, il diritto per le persone che hanno subito danni alla salute di chiedere un risarcimento a coloro che la violano.
In sede di votazione solo l’Italia – primo Paese in Europa per morti attribuibili all’inquinamento atmosferico secondo la Società italiana di medicina ambientale (Sima) – si è detta contraria, mentre si sono astenuti Bulgaria, Austria e Romania.
Interviene Domiziana Illengo, campaigner dell’alimentazione vegetale di Lav
“Ai danni dell’agricoltura cellulare una campagna di screditamento priva di fondamento scientifico”
La scelta rivolta al futuro è quella 100% vegetale, ormai seguita da sportivi di fama mondiale con ottimi risultati. Uno dei massimi esempi è quello del velocista Carl Lewis che, seguendo un’alimentazione vegana, ha vinto due ori mondiali e tre ori olimpici, conquistando anche un record mondiale. “Un’alimentazione vegana, se ben bilanciata, fornisce tutti i nutrienti necessari in qualsiasi momento della vita, come sostenuto dalla comunità scientifica internazionale – sostiene Domiziana Illengo, campaigner dell’alimentazione vegetale di Lav –. Inoltre non include alimenti che possono diventare un facilitatore per contrarre malattie ed è sostenibile. Dal punto di vista etico è l’unico regime alimentare che rispetta le vite di tutti gli individui perché non ne prevede lo sfruttamento”.
L’altra alternativa potrebbe in futuro essere quella della carne coltivata, impropriamente detta “sintetica”, che prevede la coltura di cellule isolate a partire da un campione prelevato da animale vivo, tramite prelievo del sangue, biopsia muscolare sotto anestesia o prelievo da piuma. “È biologicamente identica a quella da allevamento, ma senza la necessità dell’allevamento, della reclusione, dell’uccisione e della macellazione dell’animale – continua Illengo -. Inoltre non contempla l’impiego di antibiotici, avviene in ambiente sterile, monitora eventuali mutazioni pericolose, riduce l’impatto ambientale della produzione di carni e la sofferenza degli animali. Si stima che da un singolo prelievo si possano ottenere fino a 100 mila hamburger, ma la produzione e la vendita della carne coltivata avviene soltanto a Singapore e Israele. In Europa, lo scorso luglio, una start up francese di nome Gourmey ha inoltrato la prima richiesta di autorizzazione all’Ue che, entro 18 mesi, emetterà il suo verdetto”.
Questo perché nell’Ue la carne coltivata è normata dal regolamento sui Novel Foods19, obbligando le aziende all’autorizzazione per la commercializzazione, subordinata alla valutazione dell’Efsa e al giudizio finale della Commissione europea. Il merito di Food for profit, oltre a quello di denunciare la sofferenza degli animali allevati, è stato quello di far emergere le pressioni delle lobby dell’agribusiness sulla classe politica.
“Lav si impegna a monitorare la vicenda e a sollevare eventuali criticità – precisa la campaigner dell’alimentazione vegetale di Lav -. Così come accaduto nel 2023 con la legge n.172 intitolata ‘Divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici’, proposta dai ministri Lollobrigida e Schillaci e promulgata senza seguire il corretto iter di approvazione previsto dal diritto comunitario, vedendo l’Europa interrompere la procedura di valutazione Tris sulla legge. Si è trattato di una campagna di screditamento ai danni dell’agricoltura cellulare, priva di fondamento scientifico, che si spingeva fino al divieto di usare termini come ‘polpetta’’ e ‘burger’ per prodotti diversi da quelli animali, nonostante facciano da sempre parte della cucina tradizionale di diverse regioni italiane e sia obbligo dei produttori indicare sulle confezioni dei prodotti alimentari gli ingredienti utilizzati”.