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Giovanni Pizzo  |
domenica 02 Luglio 2023

La vicenda che sta appassionando la indolente e pigra Palermo, nella sua calura estiva, non poteva che essere ambientata in un giardino.

La vicenda che sta appassionando la indolente e pigra Palermo, nella sua calura estiva, non poteva che essere ambientata in un giardino, dove l’homo panormitanus cerca frescura e sollievo.

È fondamentalmente una storia di panta rei, in cui non ci si accorge che ci sono degli scatti temporali in cui si è fuori dalla storia. Gianfranco Miccichè ha fatto, e fà, parte di una alta borghesia, confusa e intrecciata, sin dalla fine dell’ottocento, con parte della nobiltà decadente, per la fine dei latifondi. Questa borghesia palermitana ha governato dall’unità d’Italia, soprattutto con il suo campione, Francesco Crispi, fino agli anni ‘80 del secolo scorso. Poi sono arrivati i viddani ed i borgatari, che hanno rimpiazzato soprattutto il ceto dirigente politico.

Di fatto Miccichè era l’ultimo dei mohicani della borghesia palermitana a svolgere ruoli politici, insieme all’altro figlio d’arte Leoluca Orlando. Negli ultimi trent’anni sono stati loro due, alternativamente a gestire la politica cittadina. Orlando in presa diretta, non fidandosi di nessuno, Miccichè indirettamente, fidandosi troppo degli altri. Un fidarsi da oblige borghese, disattenta a concretezze materiali, che i campagnoli e uomini del volgo sovrintendono con circospezione. Una trascuratezza del viver comune, ma anche del comune sentire, che lo ha sempre contraddistinto. Soltanto che i tempi sono profondamente cambiati. Intanto era ormai il solo della sua razza, dei gonzaghini o garibaldini, le scuole che primeggiavano tra il pubblico e il privato istruente. Se ne erano gia andati fuori dalla politica i Musotto, i Mercadante, i Cocilovo, ognuno per ragioni e modalità differenti. Solo Orlando, tignoso oltre misura, resisteva indifferente allo sfacelo di una classe dirigente, politica e burocratica, ormai involgarita. Era finito il tempo per Orlando Cascio, come lo chiamava Cossiga, a giugno scorso, ed era finito, anche se vincente, il tempo di Miccichè. Simul stabunt simul cadunt.

Stava terminando il tempo del suo padre putativo, Silvio Berlusconi, e gli era stata offerta una exit strategy, una sicumera senatoriale, lontana da Palermo e dai suoi anfratti. Lui, ostinato oltre misura, non ha riflettuto come fece il Principe di Salina, sulla fine di un’epoca, e sull’avvento degli sciacalletti, voraci e feroci, affamati di tutto.

L’esilio romano fu rifiutato, ed oggi si paga il fio di questa scelta, proposta da avversari, ma consigliata anche da amici meno interessati alla sua permanenza locale. C’è un tempo per tutto in questa città delabrè, chi faceva il consigliere di circoscrizione ora fa l’eurodeputato, chi stentava a fare un discorso in consiglio comunale, oggi è deputato regionale. Tutti piccoli uomini in un grande laghetto, oggi stagno putrescente, per mancanza di linfa culturale e sociale.
Bisogna capire le lancette del tempo e viverlo con sapienza, mi sento di dire.

Così è se vi pare

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