“Gender gap, a rimetterci non solo le donne ma anche l’economia” - QdS

“Gender gap, a rimetterci non solo le donne ma anche l’economia”

“Gender gap, a rimetterci non solo le donne ma anche l’economia”

sabato 23 Ottobre 2021

Valerio De Molli, CEO di The European House-Ambrosetti: “Superamento vale solo per l’Italia 110 miliardi aggiuntivi di Pil”. Inclusione femminile, in 10 anni investiti 5 miliardi senza nessun impatto

ROMA – Favorire un cambiamento culturale sostenendo nuovi modelli di riferimento, sia femminili che maschili, che vadano oltre gli stereotipi di genere. Cambiare la percezione del ruolo della donna in economia, politica e nella società partendo dall’educazione di primo grado e promuovendo un linguaggio più inclusivo. Rimuovere gli ostacoli che impediscono la parità di accesso all’educazione e alla formazione permanente e introdurre iniziative a supporto della genitorialità e del bilanciamento delle attività di cura tra uomini e donne.

Questi sono solo alcuni dei dieci punti del manifesto elaborato in occasione del G20 dal Business Advisory Board coordinato da Abrosetti Club a sostegno dell’empowerment femminile, già firmato da numerose aziende di rilevanza internazionale.

Il nostro Paese, infatti, continua a presentare dati impietosi riguardo l’occupazione e l’emancipazione della donne e non riesce a tenere il passo delle altre nazioni europee. Il ritardo, prima che economico, è di natura culturale, come ha spiegato Valerio De Molli, Managing Partner & Ceo di The European House – Ambrosetti (società di consulenza) che abbiamo intervistato a proposito di questo nuovo modello di sviluppo che sta alla base del manifesto elaborato.

L’Italia è all’ultimo posto in Europa per occupazione femminile e al di sotto della media europea se consideriamo la percentuale di donne che hanno accesso a posizione manageriali. Se ci spostiamo al Sud, questi numeri peggiorano drasticamente e molte regioni non raggiungono neanche la media nazionale. Non pensa che il Sud forse abbia bisogno di misure più specifiche?
“La partecipazione delle donne al lavoro configura una situazione di grave ritardo, con numeri record che ci posizionano all’ultimo posto in Europa con solo il 56,5% delle donne che lavorano o cercano attivamente lavoro, contro una media europea del 68,8%. Il quadro è ancora più critico in alcune aree e/o città del sud (in Sicilia, Campania e Calabria è inferiore al 40%, tra i dati più bassi al mondo). Anche con riferimento al tasso di occupazione, le ultime 8 Regioni d’Italia sono tutte del Mezzogiorno, mostrando un Paese ‘a due velocità’. Si tratta tuttavia di una criticità che può essere superata solo attraverso la definizione di una visione a 360º del Paese verso il raggiungimento dell’empowerment delle donne progettando un piano strategico a lungo termine con priorità condivise, risorse dedicate, responsabilità, indicatori e obiettivi chiari proprio a partire dai territori più svantaggiati”.

Gli strumenti introdotti in Italia negli ultimi 10 anni hanno avuto una scarsa efficacia sull’aumento del tasso di occupazione e sul tasso di natalità. Cosa non ha funzionato?
“Negli ultimi 10 anni in Italia si sono investiti, senza alcun impatto, ben 5 miliardi di euro nelle politiche di supporto a natalità e inclusione delle donne. I risultati sono stati pessimi. Il tasso di natalità è in costante decrescita dal 2010, assestandosi a 1,27 nel 2019, il valore più basso mai registrato e il tasso di occupazione femminile è cresciuto di soli 4 punti percentuali in 10 anni. Gli strumenti introdotti, prevalentemente sotto forma di bonus frammentati e con complessi sistemi di accesso, sono stati esclusivamente orientati ad offrire supporto economico alle famiglie e alle donne, piuttosto che a potenziare e innovare l’offerta di servizi e a favorire il cambiamento culturale necessario, a partire dall’educazione scolastica”.

La maggior parte dei punti del manifesto puntano a incoraggiare un cambiamento culturale, di percezione dei generi e del ruolo e della donna e a promuovere una nuova educazione. Forse è proprio questo che ci rende diversi, e più indietro, rispetto alle principali potenze europee, credenze ormai anacronistiche?
“Il tema è complesso e determinato da una serie di concause, in primis di matrice socio-culturale che vede le donne maggiormente coinvolte nei carichi di cura familiare tanto che, con l’emergenza Covid-19, una madre su cinque sta considerando di abbandonare il proprio lavoro per far fronte alle esigenze di cura domestica. Anche nel contesto lavorativo persistono dei bias culturali che incidono sulla presenza femminile nei settori tecnico scientifici. Nel mondo solo il 28% delle donne lavora nel campo della scienza e dell’ingegneria, contro il 72% di uomini e, nell’ambito della formazione, in Italia solo il 15% del totale delle donne laureate sceglie dei percorsi di studio legati a discipline Stem – scientifico-tecnologiche –tra gli ambiti a maggiore crescita occupazionale. Non è però solo un aspetto culturale, ma anche di effettiva carenza di servizi. In Italia il tasso di partecipazione ai servizi di prima infanzia è del 25,5% rispetto ad una media europea del 32,9% (-7,4 punti percentuali). Un miglioramento dell’offerta di asili nido permetterebbe alle madri di conciliare meglio vita familiare e lavorativa, contribuendo ad una riduzione del gender gap nel tasso di dimissione. Anche in materia di congedi, l’Italia si posiziona agli ultimi posti tra i Paesi europei, con un’offerta complessiva di 5 mesi per il congedo di maternità, 1 mese per il congedo parentale e di 10 giorni per il padre. Altri Paesi hanno adottato politiche diverse come le 104 settimane dell’Ungheria e la trasformazione dei congedi di maternità in congedi gender neutral che incoraggiano una più equa suddivisione dei compiti superando gli stereotipi di genere”.

Come lei ha spiegato, l’eliminazione del divario salariale e l’aumento dell’occupazione femminile avrebbero un impatto economico consistente sul nostro paese, circa 110 miliardi di euro di Pil in più. Le donne sarebbero davvero una risorsa economica in termini di crescita, perché non si è mai pensato in questi termini e si è continuato a sacrificarle e a non rendere facile il loro ingresso nel mondo del lavoro?
“Secondo il modello da noi messo a punto, con il supporto del Club di The European House – Ambrosetti e di un Business Advisory Board internazionale, l’eliminazione del gender pay gap e l’aumento del tasso di occupazione femminile (fino ad eguagliare quello maschile) potrà generare un valore economico pari a 9 trilioni di Dollari nei Paesi G20 (circa 12% del PIL totale), di cui 110 miliardi di Euro solo per l’Italia (6,7% del PIL). Per dispiegare questo potenziale serve un cambio di paradigma epocale che ci porta a guardare al tema in modo più pragmatico e come opportunità economica. Al contrario, il dibattito si è sempre focalizzato sul rispetto dei diritti e dei valori etici senza riuscire a incidere nell’agenda politica con policy in grado di fare la differenza. Oltre alle policy puntuali, come le quote rosa che hanno dimostrato la propria efficacia, serve una visione di sistema che miri a creare i presupposti per una maggiore partecipazione femminile al lavoro, a partire da migliori e più diffusi servizi di supporto, rimozione dei bias culturali e degli stereotipi di genere, investimenti in educazione, a partire dalla prima infanzia, e potenziamento di competenze tecnico-scientifiche”.

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