Licenziamenti nella Pa, statistiche in crescita ma la produttività rimane una sconosciuta - QdS

Licenziamenti nella Pa, statistiche in crescita ma la produttività rimane una sconosciuta

Licenziamenti nella Pa, statistiche in crescita ma la produttività rimane una sconosciuta

Gioacchino D'Amico  |
martedì 15 Ottobre 2024

“Espulsioni” ridimensionate se confrontate coi numeri delle imprese, dove la resa incide in misura maggiore

ROMA – Quasi un gioco di specchi, quello del trend sui licenziamenti nel settore pubblico, da una parte, e in quello privato, dall’altra. Due curve che piegano su versanti opposti, rivelando meccanismi di controllo, pretese e apparati disciplinari diversi tra di loro. Dati alla mano, infatti, i numeri della massima sanzione sul posto di lavoro poggiano su tendenze contrarie: i licenziamenti nel privato diminuiscono, mentre quelli relativi al pubblico impiego continuano ad aumentare. Tuttavia, benché le Pa abbiano irrigidito il loro atteggiamento nei confronti degli impiegati, i dipendenti pubblici cacciati fuori dall’ufficio restano poche centinaia all’anno. Mentre i licenziati nel privato, seppur in diminuzione, rimangono sull’onda annuale di numeri a sei cifre. Il quadro che si può delineare racconta una realtà in cui i lavoratori nel privato sono sottoposti a carichi di lavoro e controlli maggiori.

Licenziamenti nella Pa: lo spartiacque Maida

Riguardo al pubblico impiego, l’impennata dei licenziamenti ruota intorno alla cosiddetta riforma Madia (Legge 124/2015), che ha rappresentato un momento, per così dire, spartiacque. Più che un momento, però, la riforma ha dovuto attraversare un iter complesso che ha visto, tra le fasi più accese, il 2015 con la delega al Governo in materia di riorganizzazione delle Amministrazioni pubbliche e il 2017, con il decreto legislativo 75 che, tra l’altro, ha aumentato il numero di casi in cui è possibile disporre il licenziamento disciplinare, portando queste ipotesi da sei a dieci. Da queste modifiche in poi – come anche ricostruito dal QdS affrontando di recente un caso specifico riguardante il Comune di Terrasini, nel palermitano – i dipendenti delle Pubbliche amministrazioni avrebbero cominciato a essere colpiti da un numero crescente di “benservito”. I dati elaborati dal Dipartimento della Funzione pubblica, e aggiornati al 30 giugno 2024, lasciano pochi dubbi sotto quest’aspetto: i licenziamenti disciplinari disposti nel 2023, rispetto alla rilevazione del lontano 2014, sono cresciuti del 198,6%, aumentando progressivamente nel periodo intermedio.

Precisamente, nel biennio 2014-2015 i licenziamenti nella Pa si aggiravano intorno ai 220-280 casi all’anno. Dal 2016 le cose iniziano a cambiare, e il numero annuale di dipendenti pubblici messi alla porta non scende più sotto i 300 casi. Infine, il quadriennio 2020-2023 registra i picchi più alti, fino ad arrivare a 657 licenziamenti in un anno su 11.606 procedimenti avviati. Il vero boom, per onor di cronaca, si è visto nel passaggio dal 2020 al 2021, quando anche le misure anti Covid hanno lasciato lo zampino sull’azione disciplinare della Pa: da 464 a 628 licenziamenti, con un incremento del 35,3% in un solo anno.

Licenziamenti nel privato: impennat “distorte” e generale diminuzione

Nel caso dei rapporti tra privati, invece, la tendenza si inverte. I dati elaborati dall’Inps sulle posizioni di lavoro relative ai contratti a tempo indeterminato parlano di una riduzione dei licenziamenti. La panoramica più attendibile, come specificato dallo stesso Istituto, è quella successiva al 2022, trattandosi di un periodo in cui gli effetti dell’emergenza sanitaria sui rapporti di lavoro (tra chiusure e restrizioni) sono cessati e, di conseguenza, i flussi sono ritornati ai livelli pre-pandemici.

Il confronto 2022-2021, infatti, riguardo al quale (contrariamente al quadro che stiamo ricostruendo) si rileverebbe un aumento dei licenziamenti, viene considerato con le dovute riserve dallo stesso Inps, che ricorda come, per gran parte del 2021, i licenziamenti economici nel terziario e nell’industria siano stati bloccati dalle normative introdotte nel 2020 a fronte della pandemia. Un fattore che relativizza eccessivamente i dati. Per questo nel report viene definitivo come “più attendibile” il confronto tra il 2022 e il 2019, dove invece, per i licenziamenti economici, si rileva una contrazione: circa 81.000 in meno (-20%). Facendo un salto in avanti di un anno, l’andamento non cambia. I dati Inps aggiornati al 21 marzo 2024, nella parte in cui riportano le cessazioni dei contratti a tempo indeterminato tra il 2023 e il 2022, evidenziano una riduzione dei licenziamenti di natura economica (-10%) e dei licenziamenti disciplinari (-10%).

Platee di dipendenti pubblici e privati: uno scarto considerevole

Al netto di aumenti e diminuzioni dei licenziamenti, però, i numeri in sé restano ancora distanti tra pubblico e privato. Vale a dire che, in concreto, i privati licenziati restano molti di più rispetto ai lavoratori della Pa, nonostante sia proprio nel pubblico, come visto, che crescono i numeri. Il punto sta nel fatto che, nel quadro complessivo, occorre comunque contestualizzare le statistiche. Non solo nella Pa, nel quadriennio 2020-2023, l’incremento dei licenziamenti (compreso tra il 70% e il 190%) si traduce pur sempre in numeri assai contenuti: solo mezzo migliaio di sanzioni all’anno. Ma a questo si aggiunge anche che questi numeri vanno comunque rapportati a un organico complessivo di dipendenti pubblici che nel nostro Paese (secondo le stime del 2023) è composto da circa 3 milioni e 700 mila persone. Insomma, 657 licenziati in un anno, seppur maggiori di numero rispetto alla media del passato, comunque finiscono per incidere solo per lo 0,01% circa sul totale dei dipendenti pubblici.

Riguardo invece al lavoro privato, ricostruire il numero di occupati è senz’altro più complesso, data l’elevata variabilità dei flussi. In linea di massima, dal “Rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie 2024” pubblicato dal Ministero del Lavoro, risulta che nel 2023 sono stati attivati oltre 13 milioni 72 mila contratti ed effettuati 677.890 licenziamenti, venendo fuori un rapporto percentuale tra i due dati del circa 5,2%. Da questo punto di vista, i dipendenti licenziati nel privato restano comunque in maggioranza rispetto ai pubblici impiegati. E questo, appunto, sia alla luce del fatto che le sanzioni agiscono su platee di dipendenti di assai diversa consistenza numerica, sia perché – pur diminuendo nel tempo – i licenziamenti nel privato restano sull’onda di centinaia di migliaia all’anno, mentre nel pubblico – dove crescono – non raggiungono mai nemmeno i mille.

Fare economia è una roba da privati

Interviene poi un altro aspetto di rilievo sul tema dei licenziamenti nelle due dimensioni lavorative. Quello, cioè, che lo “spettro” del licenziamento per motivi economici – ancor prima di quello di natura disciplinare – sembra aleggiare in maniera più minacciosa sul lavoro privato. Per licenziamento economico si intende quello legato a questioni di “riassetto aziendale”. Il pubblico impiegato, va detto, non ne è del tutto immune: lo stesso decreto legislativo 165/2001 sull’ordinamento del lavoro nelle Amministrazioni pubbliche, all’articolo 33, fa riferimento alla valutazione delle “situazioni di soprannumero” o delle “eccedenze di personale” in relazione alle esigenze funzionali o finanziarie. Tuttavia, considerata l’obbligatorietà dei servizi svolti dalle stesse Pa, a meno di un gravissimo shock delle finanze pubbliche, l’ipotesi di un licenziamento di natura economica rimane assai improbabile.

Nel caso del lavoro privato, invece, è un’ipotesi che genera un impatto differente. I dati Inps aggiornati allo scorso marzo rilevano, per i privati, uno scarto di circa 250.000 licenziamenti economici in più rispetto a quelli disciplinari, sia nel 2023 sia nel 2022. Nella Pa, invece,i licenziamenti si esauriscano di fatto nell’alveo disciplinare. Tant’è vero che i lavoratori licenziati nel privato per ragioni economiche nel 2023 sono stati 351.542. I report ministeriali relativi alla Pa, invece, tra i casi di licenziamento non menzionano nemmeno il profilo dell’economicità.

Più impiegati pubblici messi alla porta: che clima ha generato la riforma

Dal quadro che abbiamo ricostruito emergono due considerazioni. La prima che, seppur in diminuzione, i licenziamenti nel privato sono ancora presenti. La seconda che, contrariamente al pregiudizio comune, non è poi tanto vero che un pubblico impiegato goda di garanzie estremamente blindate riguardo alla conservazione del “posto”. Tra furbetti del cartellino e altro, dalla riforma Madia in poi ci sono davvero stati più licenziamenti. Questo, tuttavia, non è necessariamente il sintomo di una categoria professionale spesso tacciata di inefficienza. Il segnale, invece, sembra quello di un più stringente sistema di monitoraggio delle buone condotte dei pubblici impiegati, o comunque di un apparato disciplinare che nel tempo sta mutando, e probabilmente in meglio. Dopotutto, poche centinaia di licenziati a fronte di milioni di dipendenti pubblici, non sembrano matematicamente adeguati a rappresentare il livello di efficienza dell’intera categoria. Davanti al dato di fatto che si licenzia di più, allora, se davvero c’entrano poco le virtù dei dipendenti, pare che il fenomeno sia da riferire più al passo dell’azione disciplinare nella Pa.

Come era stato dichiarato al QdS dal segretario comunale Cristofaro Ricupati, la fonte interpellata per il caso specifico del Comune di Terrasini, la riforma ha introdotto alcune novità cha hanno contribuito a rendere più “cogente” l’attivazione del procedimento, con “l’obbligatorietà dell’azione disciplinare ma anche la sanzione per gli stessi dirigenti, qualora non facciano il proprio lavoro, e cioè qualora omettano di sanzionare in presenza di un palese illecito”. Su questo fronte, infatti, i “controllori” sembrano aver prestato particolare attenzione: secondo il report ministeriale, nel triennio 2020-2023, di licenziamenti per “omessa attivazione o decadenza dell’azione disciplinare” ce n’è stato soltanto uno (nel 2021).

Pertanto, una delle “nuove” fattispecie introdotte nel 2017, quella che condurrebbe al licenziamento del responsabile che omette di attivare l’azione disciplinare, non rientrerebbe tra i casi concreti degli ultimi anni. È invece probabile che possa aver favorito una maggiore inflessibilità degli stessi responsabili del procedimento, incidendo in modo per così dire indiretto sull’aumento dei licenziamenti. A questo, inoltre, si accompagna la procedura accelerata per i furbetti del cartellino: “Un procedimento semplificato – ha spiegato Ricupati – che si mette in atto quando ci sono questioni che riguardano assenze in flagranza. Sono stati accorciati i termini: tutto si deve concludere entro i 30 giorni, laddove il procedimento ordinario si conclude entro i 120 giorni”. Ciò nonostante, anche gli altri “nuovi” presupposti di licenziamento nella Pa introdotti nel 2017, dati alla mano, hanno influito poco sul numero concreto di sanzioni. Persino i furbetti del cartellino, l’anno scorso, sono stati soltanto 24 (e uno solo di questi è stato beccato il flagranza), cioè il 3,65% del totale dei licenziamenti. Una goccia nell’oceano.

In realtà i comportamenti sanzionati più di frequente restano quelli già previsti anche prima del 2017: in particolare, si tratta del compimento di un reato e delle assenze dal servizio (ingiustificate, non comunicate nei termini, oppure per falsa certificazione). Nel 2023, infatti, al primo posto tra le cause di licenziamento nella Pa ci sono proprio quelle relative all’assenza, con il 35,01% sul totale: in netta maggioranza, dunque, su tutte le altre cause, come le attività extra lavorative non autorizzate (1,83%), l’irreperibilità alla visita fiscale (0,61%), l’inosservanza di disposizioni di servizio, la negligenza, i comportamenti non corretti verso superiori, colleghi o utenti, le dichiarazioni non veritiere (26,03%) e altro. I dati si compongono più o meno nello stesso modo anche per le annualità precedenti. Insomma, nonostante la sanzionabilità ampliata nel 2017, il dipendente licenziato resta per definizione (e soprattutto per statistica) il dipendente assente.

Nella Pa non si registra neppure un licenziamento per scarso o insufficiente rendimento

Un fatto assai interessante, però, è che nella Pa (al netto della negligenza, comunque inserita in un computo generico insieme ad altre motivazioni) non si registra neppure un licenziamento per scarso o insufficiente rendimento, così propriamente detto, che rientra tra quelle “nuove” cause del 2017. Questo si mostra come un esito ben diverso rispetto a quanto accade nel privato dove, sol per il fatto che le motivazioni economiche distaccano, e non di poco, quelle disciplinari, è chiaro che parametri come profitto, risultati e rendimento del dipendente giocano un ruolo di primo piano anche in tema di licenziamenti. Parametri che, nel settore pubblico, come si evince dai resoconti, sembrano mantenere quasi inevitabilmente un ruolo di second’ordine.

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