La fuga dal nulla e la profezia di Tajani: “Serve intervenire con una strategia di lungo termine”. Il sociologo Ambrosini: “Nel decreto molta comunicazione, poco di nuovo. Ma è comunque positivo investire”
Ci sono temi, come l’immigrazione, che tengono insieme passato e presente. Discorsi di ieri che rivivono nel nostro oggi, che tornano ciclicamente d’attualità perché mancano le soluzioni a tagliare quel filo invisibile che tiene unito passato e presente. Perché nel mezzo ci sono solo le chiacchiere, le polemiche, le promesse puntualmente cadute nel vuoto.
L’immigrazione è forse il problema irrisolto per antonomasia, che scompare dai radar dell’informazione ma poi torna puntualmente a riprendersi la scena. L’emergenza è sempre lì, esattamente dove politica e istituzioni l’avevano lasciata.
“La mia impressione è che si parli molto spesso della cronaca e poco della strategia: è come se invece di fare una nuova strada si vada a tappare le buche di quella vecchia”. Lo diceva al Quotidiano di Sicilia Antonio Tajani nel corso del Forum al quale partecipò da Presidente del Parlamento europeo: era il 20 maggio 2017 e Tajani esprimeva una preoccupazione quanto mai “attuale” nei giorni nostri: “Adesso ci preoccupiamo se sono 2.500 o 3.500, ma se non interveniamo in Africa, e in particolare nell’Africa Sud-sahariana, avremo a che fare con milioni di persone che si sposteranno dal Sud del mondo verso il Nord. La Sicilia, insieme all’Italia meridionale, la Spagna, la Grecia e Malta non saranno in grado di affrontare l’emergenza. Io ho una preoccupazione più grande, che riguarda i prossimi anni: se non interveniamo subito, ci ritroveremo a far fronte a una grande emergenza, perché avremo da accogliere milioni di persone”.
Una “profezia” che è diventata forse troppo presto realtà concreta
Una “profezia” che è diventata forse troppo presto incubo, realtà concreta, tangibile, e che chiama in causa “la grande assente”: l’Unione europea, mastodonte a 27 teste che una strategia non è mai stata in grado di partorirla, vuoi per incapacità, vuoi per la mancanza di una volontà politica precisa e univoca.
Il Piano Mattei per dare stabilità al continente africano
Passato e presente che si tengono insieme, dicevamo poc’anzi. Qualcosa, però, pare si stia muovendo: “L’Africa è una priorità assoluta”. Tajani lo diceva da numero uno dell’Europarlamento e lo ha ripetuto in più occasioni anche da vicepremier e ministro degli Esteri del Governo Meloni: “Abbiamo cambiato approccio con il continente africano in maniera radicale, promuovendo partenariati paritari e non predatori, rafforzando la presenza in campo economico e dell’istruzione”.
Il cambiamento parte proprio dal decreto Mattei, approvato giorni fa in Consiglio dei ministri e con il quale si intende dare stabilità al continente africano e” favorire il suo inquadramento in un più ampio piano Marshall europeo”.
L’ambizione del Governo italiano è notevole: “Vogliamo essere capofila di una grande iniziativa dell’Unione europea e così vogliamo favorire la creazione di posti di lavoro, offrire un’alternativa di vita a tanti giovani africani, vogliamo aumentare le borse di studio e contribuire a creare una leadership africana responsabile e preparata, con l’obiettivo di affrontare in modo strutturato il tema dello sviluppo e contrastare il traffico di esseri umani”.
Alle opposizioni il Piano non piace
Il Piano Mattei non piace alle opposizioni. Figuriamoci. “Il governo vuole trasformare l’Italia, in particolar modo il sud, in un hub del gas e questa è una strategia che condannerà economicamente migliaia di famiglie italiane a pagare bollette elevatissime. Il piano Mattei altro non è altro che una forma di nuovo colonialismo nei confronti dell’Africa, per accaparrarsi il gas e portarlo in Italia”, tuonava qualche giorno fa il deputato di Avs e co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli,
Ma quello africano non è l’unico fronte che vede impegnato l’Esecutivo. Il Governo, infatti, si è posto un altro obiettivo che è quello di rendere operative entro la primavera 2024 le due strutture che l’Italia intende realizzare in Albania per la gestione dei flussi migratori.
La gestione dei flussi migratori resta terreno di scontro della politica: l’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama ha sollevato un vespaio di polemiche. Ma restare nel limbo del “non fare” è un lusso che non possiamo più permetterci.
La filosofia che sta alla base del Piano Mattei e della strategia di ampio respiro che il Governo Meloni sta provando a mettere in piedi ci riporta inevitabilmente a ciò che per tanti anni si è tentato di fare con il Mezzogiorno, ovvero ragionare su una strategia, capire come sia possibile offrire un contributo serio alla crescita di aree disagiate nella consapevolezza che mantenerle in una condizione di sottosviluppo, non conviene a nessuno.
Fino ad oggi, il Sud Italia è stato visto come una zavorra, esattamente come l’Africa. E a confermarlo sono le scelte ripetutamente compiute negli ultimi decenni dalla politica e che hanno riguardato proprio quell’area del nostro Paese ricca di potenzialità a cui i governi di ogni colore politico sono stati in grado di offrire solo assistenzialismo e clientes, senza mai esprimere una visione, una strategia, un futuro. (pp)
Il sociologo Ambrosini: “Nel Dl molta comunicazione, poco di nuovo. Ma è comunque positivo investire”
Giorgia Meloni lo ha definito “il più grande progetto geopolitico del Governo”, rivoluzionario sul fronte della migrazioni e dello sviluppo economico. Sarà vero? Su QdS interviene il professore Maurizio Ambrosini (Unimi), esperto di sociologia delle migrazioni, per analizzare le informazioni a disposizione sul progetto per l’Africa.
Luci e ombre del Piano Mattei del Governo Meloni: sarà davvero efficace per rivoluzionare la gestione delle migrazioni in Italia?
“Il piano Mattei ancora non si è visto. È da mesi un oggetto misterioso, che serve a comunicare soprattutto all’opinione pubblica interna un impegno per lo sviluppo dell’Africa che dovrebbe scongiurare le migrazioni indesiderate. Anche il recente Decreto, che faceva pensare a un progetto finalmente chiaro, tratta essenzialmente della governance del piano. Parla di cabina di regia e di struttura di missione, prevede un coinvolgimento di esperti di varia estrazione per i quali sono previsti complessivamente compensi per la bella cifra di 500.000 euro. Per il resto, il Decreto parla di potenziare le iniziative di collaborazione già in atto, di rafforzare il coordinamento delle iniziative pubbliche e private, di coinvolgere i governi africani nella definizione e attuazione degli interventi previsti, cosa che già dovrebbe avvenire nell’ambito della cooperazione internazionale. Molta comunicazione, quindi, poco di nuovo. È comunque positivo investire di più sulla cooperazione allo sviluppo dell’Africa, un fronte su cui siamo indietro rispetto ai maggiori Paesi sviluppati, visto che non abbiamo mai ottemperato agli impegni assunti in sede internazionale. Sbagliato invece, a mio avviso, far credere che destinando risorse all’Africa si fermeranno o anche solo ridurranno i flussi migratori. Anzitutto, non è vero che gli immigrati arrivino principalmente dall’Africa: si confondono le migrazioni con gli sbarchi, e neppure quelli riguardano solo cittadini africani. Secondo, se imperversano guerre, persecuzioni e insicurezza, a poco servono le iniziative di sviluppo locale. Terzo: lo sviluppo previene le migrazioni soltanto nel lungo periodo, ossia 20-30 anni se tutto va bene. Nel breve periodo una prima fase di sviluppo suscita nuove migrazioni, perché ci sono più risorse a disposizione per partire, aumentano i livelli d’istruzione e le aspirazioni a una vita migliore che non è ancora possibile in loco. A meno che, e questo mi pare sia il vero obiettivo, non si voglia in realtà scambiare qualche aiuto in più ai Governi africani con il loro impegno a fermare le partenze e soprattutto i transiti con le maniere forti, sul modello già applicato in Libia e in altri Paesi”.
Quali sono i potenziali effetti positivi e i rischi dell’attuare un simile piano economico e geopolitico in un momento di profonda incertezza internazionale?
“La domanda presuppone un giudizio positivo sul piano. Distinguerei: la cooperazione internazionale può aiutare a migliorare le condizioni di vita e le prospettive delle popolazioni fragili, offrendo un’alternativa all’arruolamento in qualche milizia. Può anche rappresentare uno strumento di soft power per spingere verso assetti più democratici: può essere scambiata con l’impegno a realizzare libere elezioni e liberare i prigionieri politici. Non mi sembra però che siano queste le vere priorità del cosiddetto piano Mattei. Mi sembra che i governi autoritari ci vadano benissimo, come quello di Saïed in Tunisia, purché fermino le partenze”.
Quali attori e Paesi – partner e competitor dell’Italia – giocheranno un ruolo fondamentale nella buona riuscita del Piano Mattei?
“C’è di nuovo un pregiudizio positivo sul piano che avrebbe bisogno di attente verifiche. Non vorrei si pensasse che non ci sia nessuno – italiano o europeo od occidentale – che coopera per lo sviluppo dell’Africa e che adesso noi con il piano Mattei detteremo l’agenda. È vero il contrario: auspicherei che con il piano Mattei l’Italia finalmente sostenga di più la cooperazione internazionale e si avvicini all’impegno degli altri Paesi donatori. Occorre semmai uno sforzo europeo più incisivo per un’azione politico-economica volta a promuovere democrazia e sviluppo in Africa, contrastando la crescita dell’influenza russa e cinese nel continente e l’involuzione autoritaria di diversi Paesi”. (ms)