Rosario Livatino, assassinato dalla mafia 34 anni fa. Un giudice, un uomo di fede, un servitore dello Stato - QdS

Rosario Livatino, assassinato dalla mafia 34 anni fa. Un giudice, un uomo di fede, un servitore dello Stato

redazione

Rosario Livatino, assassinato dalla mafia 34 anni fa. Un giudice, un uomo di fede, un servitore dello Stato

Roberto Greco  |
sabato 21 Settembre 2024

Il 21 settembre 1990 l’Italia conosceva il suo sacrificio: “Nessuno vi verrà a chiedere se siete stati credenti, ma credibili”

AGRIGENTO – Rosario Angelo Livatino era nato a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Unico figlio di Vincenzo, funzionario dell’esattoria comunale di Canicattì, e di Rosalia Corbo, negli anni del liceo studia intensamente e parallelamente s’impegna nell’Azione Cattolica. Si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, fa il suo ingresso in Magistratura e, dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero.

Furono, per lui, anni di lavoro intensissimo. Nonostante la sua giovane età, Livatino seppe misurarsi, con grande capacità e spiccata lucidità, con indagini assai difficili e delicate, che scavarono in profondità nelle pieghe delle relazioni ambigue e perverse tra mafia, imprenditoria e politica indagando anche sulla Regione Siciliana e sugli appalti per opere mai eseguite. Come quando si occupò di alzare il velo sui finanziamenti regionali sulle cooperative giovanili di Porto Empedocle o quando indagò su un enorme giro di fatture false o gonfiate per opere mai realizzate o, ancora, quando si dedicò a una serie d’indagini su alcuni eclatanti episodi di corruzione, dando il via a quella che sarebbe passata poi alla storia come la Tangentopoli siciliana e applicando, tra i primi in Italia, la misura della confisca dei beni ai mafiosi.

Il colpo più significativo fu probabilmente il lavoro investigativo che portò al maxiprocesso contro le cosche mafiose di Agrigento, Canicattì, Campobello di Licata, Porto Empedocle, Siculiana e Ribera. Furono 40 le condanne ottenute. Un colpo durissimo alla mafia agrigentina, quella Stidda nata per contrapporsi a Cosa nostra e allo strapotere dei Corleonesi, che pretendevano di estendere il loro dominio anche nelle zone centro-meridionali della Sicilia.

“Conobbi Rosario Livatino – ha raccontato al QdS Maria Giovanna Romeo, magistrata oggi in quiescenza – quando, nel 1984 arrivai ad Agrigento e lì rimasi fino al 1988”. Oltre a Livatino, in quel momento, in quella Procura c’erano Roberto Sajeva e Salvatore Cardinale e il procuratore capo era Elio Spallitta. Una piccola Procura che si trovò nell’occhio del ciclone delle indagini di mafia. “Trovai – prosegue Romeo – colleghi straordinari. Rosario era una persona di grandissima riservatezza, che amava studiare e con una preparazione professionale elevata e, quando c’era qualcosa particolare o con un aspetto giuridico specifico, ho sempre trovato in lui non solo una grande disponibilità ma anche, e al tempo non c’erano computer o collegamenti internet, una grande attenzione e conoscenza della giurisprudenza più recente”.

Un magistrato instancabile e molto altruista

“In quegli anni io prendevo le ferie nel mese di luglio – continua Romeo – mentre Rosario le prendeva in settembre, un modo anche per lasciare ai colleghi, che erano sposati, il mese di agosto, più adatto a loro che avevano una famiglia. Per molti anni, quindi, nel mese di agosto in Procura c’eravamo Rosario e io”. Nel 1989 Livatino è trasferito come giudice nella sezione penale dello stesso Tribunale.

Il 21 settembre 1990 era una giornata calda ma non afosa, tipica del mite autunno siciliano. Alle otto, il giudice Rosario Livatino riordinò i fascicoli processuali, una sua abitudine anche perché quella era una giornata particolare in quanto il Tribunale avrebbe dovuto decidere le misure di prevenzione da adottare nei confronti dei boss mafiosi di Palma di Montechiaro. Alle 8.30 stava percorrendo, a bordo della sua Ford Fiesta rosso-amaranto, la Ss 640 per recarsi al lavoro presso il Tribunale di Agrigento dopo essere andato, anche questa una sua abitudine, a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe. Poco meno di 40 chilometri ma, a pochi chilometri da Agrigento, una Fiat Uno speronò la sua auto mentre, dal lato del passeggero, cominciarono a partire numerosi colpi di arma da fuoco che infransero il lunotto posteriore dell’auto del giudice, che fu contemporaneamente affiancata da una moto con due giovani in sella che cominciarono anche loro a sparare. La corsa della Ford Fiesta finì contro il guardrail. Livatino, ferito alla spalla, tentò una disperata fuga nella scarpata sottostante ma due killer lo braccarono. Da lontano esplosero altri colpi che lo colpirono nuovamente facendolo cadere a terra. Si avvicinarono poi al suo corpo riverso ed esplosero altri due colpi. “Quella mattina ero a casa, ero già stata traferita a Palermo, stavo ascoltando la radio e mi stavo preparando per uscire – ricorda Romeo – Così mi arrivò la notizia, come un’improvvisa doccia gelata”.

I colleghi agrigentini, pochi giorni dopo l’omicidio, denunciarono le condizioni difficili in cui i magistrati erano costretti a lavorare. I procuratori di tutta la Sicilia minacciarono le dimissioni in blocco se lo Stato non avesse agito con immediatezza contro quel delitto efferato. “Si tenne, qualche giorno dopo il suo omicidio, – conclude Romeo – un’assemblea dell’Anm nel Palazzo di giustizia di Agrigento perché non si poteva tacere, dopo quanto era avvenuto, il fatto che non esisteva nessuna protezione o tutela per i magistrati che stavano lottando in prima linea contro la mafia. Fu un’assemblea molto infuocata. Partecipammo tutti anche ai suoi funerali, che si tennero a Canicattì”.

I responsabili del suo omicidio furono assicurati alla giustizia grazie all’apporto di Pietro Ivano Nava, agente di commercio di Lecco in trasferta in Sicilia che assistette, come testimone oculare, all’omicidio. Il gesto di Nava fu importante perché recise il muro di omertà che generalmente accompagnava i fatti di mafia e perché avvenne in un’epoca in cui non era ancora entrata in vigore la legge per la protezione dei collaboratori o dei testimoni di giustizia.

L’Italia scoprì, nel suo sacrificio, l’eroismo di un giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo. Morte di mafia, quella del giudice Livatino, ma non casuale, piuttosto logica conseguenza di un impegno per la legalità, che portò l’allora pontefice Giovanni Paolo II a definire lui, e gli altri uccisi dalla mafia, “martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Il Papa, proprio dall’incontro con i suoi genitori, prese l’ispirazione per la sua celebre condanna biblica della mafia nella Valle dei Templi di Agrigento, quel “Convertitevi” che risuonò nel silenzio anche complice di quel territorio, assolutamente non prevista ma stimolata dall’esempio del giovane giudice, al quale è attribuita una frase particolarmente profonda: “Al termine della vita non vi sarà chiesto se siete stati credenti, ma se siete stati credibili”.

Sulla sua “credibilità” di magistrato e di cristiano ha indagato la Chiesa: la diocesi di Agrigento ha seguito la prima fase della causa di beatificazione e canonizzazione volta a indagare vita, virtù e fama di santità del Servo di Dio. Il 16 ottobre 2019 la “Congregazione delle Cause dei Santi” ha scritto al nuovo postulatore per richiedere l’istruzione di un’inchiesta suppletiva “super martyrio”, per completare il lavoro della commissione storica e ascoltare circa venti nuovi testimoni, ma anche per riascoltare quelli già escussi, facendo riferimento esplicito alle circostanze della morte. È quindi stata realizzata la “Positio super martyrio”, presentata nel 2020. Il 21 dicembre 2020, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui era riconosciuto il martirio di Rosario Livatino. La sua beatificazione è stata celebrata il 9 maggio 2021 nella cattedrale di San Gerlando ad Agrigento, nella Messa presieduta dal cardinal Semeraro come delegato del Santo Padre. Le spoglie del giudice riposano presso il cimitero di Canicattì, nella tomba di famiglia.

Fernando Asaro, procuratore di Marsala: “Livatino ha svelato le sacche di impunità nel territorio, era un magistrato autonomo e indipendente”

PALERMO – Fernando Asaro, palermitano, è in magistratura dal settembre 1992. In Procura a Caltanissetta nel novembre 1993, dal dicembre 1995 è stato componente della Dda del capoluogo nisseno. Dal gennaio 2000 al settembre 2011 è alla Procura della Repubblica di Palermo e dal febbraio 2002 in Dda. Fino al luglio 2016 alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Caltanissetta poi, sino al gennaio 2023, Procuratore della Repubblica di Gela. Oggi è procuratore della Repubblica di Marsala.

Profondo conoscitore della criminalità organizzata di stampo mafioso e appassionato studioso della figura di Rosario Livatino, l’ha raccontato al QdS in un’intervista esclusiva.

Procuratore, cosa direbbe a un giovane per fargli capire chi era Rosario Livatino?
“Rosario Livatino non si può semplicemente celebrare e commemorare, ma va vissuto con la stessa tensione ideale con cui lui ha svolto il ruolo di magistrato. Per fare questo bisogna studiarlo, attraverso i suoi atti, i suoi processi. Rosario Livatino lo ricordiamo oggi per aver svolto la sua funzione di magistrato per dieci anni. Ha svolto indagini per la maggior parte della sua vita professionale, dal 1979 sino alla sua brutale uccisione. Lo studio della sua vita professionale, vissuta con grande sobrietà, deve essere il punto di partenza per conoscerlo”.

Qual era la situazione della criminalità organizzata mafiosa in quel periodo nell’agrigentino?
“Rosario Livatino ha rivoluzionato, assieme ad altri colleghi, quella che era l’attività giudiziaria della Procura di Agrigento in quel momento. Livatino ha lavorato in un contesto che non è minimamente paragonabile con quello attuale. Canicattì, luogo in cui Livatino è nato e viveva, era infestata da quattro diverse famiglie mafiose, pur essendo un piccolo centro. Inoltre, alla fine degli anni ’80 emerge la “Stidda” (un’organizzazione mafiosa attiva in particolare nelle province di Agrigento, Caltanissetta e Ragusa e in contrasto con Cosa Nostra, ndr) che sarà poi l’esecutrice materiale dell’omicidio di Livatino. Da lì lui, senza alcun servizio di tutela o scorta, si muoveva tutti i giorni per andare al lavoro in una situazione in cui potevano controllarlo quotidianamente. Da ricordare la sentenza del processo ‘Ferrantonio+44’, che seguì l’operazione ‘Santa Barbara’ basata sulle sue indagini, che definisce quella località come centro delle dinamiche mafiose nell’agrigentino. L’inchiesta di Livatino, che porterà a 40 condanne, nasce nel 1984 grazie a suo uno spunto investigativo relativo a un summit che si tenne a Porto Empedocle e che coinvolgeva il gotha della mafia agrigentina di quel periodo. Un’indagine che lo porterà anche a riscoprire una vecchia indagine del 1974 abbandonata che nacque da un’operazione della Polizia canadese che aveva ricostruito, a seguito di un omicidio avvenuto in Canada e attraverso una serie di intercettazioni, la cupola e la struttura mafiosa dieci anni prima delle dichiarazioni di Buscetta”.

Livatino ha avuto rapporti con Falcone e Borsellino…
“Assolutamente sì. S’incontrò con loro, lo scrive nelle sue agende, per metterli a parte di quanto aveva scoperto e gli consegnò questo rapporto a conforto delle dichiarazioni dello stesso Buscetta. Livatino era un giovane magistrato che, già nei primi anni della sua seppur breve carriera, aveva chiara l’organizzazione e l’organigramma di Cosa Nostra e messo in cantiere, senza alcuna protezione, una forte operazione di indagine e contrasto nei confronti di esponenti di altissimo livello di Cosa Nostra. A seguito del processo già citato, inoltre, Livatino intuì e svolse attività di indagine nei confronti di diversi politici che in quel momento, oltre ad avere un grande spessore politico, erano vicini alla consorteria mafiosa e si occupò anche di finanziamenti dirottati e pilotati. Quando Livatino passò dal ruolo requirente a quello giudicante, negli ultimi due anni della sua vita, portò in dote, vero e proprio valore aggiunto, la sua professionalità raggiungendo un alto livello di sinergia tra i due ruoli”.

Qual è la lezione che Livatino ha lasciato a voi magistrati e, soprattutto, alla nuova generazione di magistrati?
“Rosario Livatino è stato un grande esempio di etica professionale. È stato un magistrato che ha indossato la sua toga svolgendo concretamente il suo ruolo sempre preparato, puntuale, ignorando i rinvii pretestuosi e il lassismo. Ha lavorato immune dalle influenze, senza condizionamenti, senza esternazioni pubbliche, personalismi o vanità e ha esercitato la sua azione giudiziaria anche svelando le sacche d’impunità presenti in quel territorio, le reti di protezione locali e perseguendole. Era un magistrato autonomo, indipendente, senza tatticismi e titubanze, che ha svolto il proprio ruolo in maniera chiara, netta e senza risparmiarsi”.

Cosa non ci è rimasto di Rosario Livatino?
“Non ci è rimasta la sua voce, perché non ha mai rilasciato interviste o partecipato a programmi televisivi. Non ci sono rimasti i suoi libri perché non ne ha mai scritti. Di lui ci sono solo due interventi, pubblicati dopo la sua morte, che fece a Canicattì nell’84 e nell’86, le sue indagini e le sue sentenze”.

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