Record di visitatori al festival di Torino, ma le vendite languono. Cosa l’editoria non ha imparato a trent’anni dalla nascita di Montalbano
L’Italia è quel Paese in cui non si vuole affrontare un annoso problema: scriviamo tutti, ma non legge più nessuno. Mentre gli autori si affannano in stesure e riscritture di romanzi che spesso finiranno auto-pubblicati o a pubblicare storie Instagram in cui vezzeggiare l’intellettuale di turno sperando che regali loro la sua cortesia (ché oggi non ci interessano più i soldi di quanto non ci carezzi l’idea di avere amici famosi), le persone non comprano più libri. Non incantino le comunque positive cronache dal Salone del Libro di Torino: Annalena Benini è un’ottima direttrice, ci sono state 222 mila visite, settemila in più dello scorso anno. Eppure, in tre settimane dall’uscita, il nuovo libro di Salman Rushdie, Coltello, ha venduto 764 copie. 764.
Le persone non comprano più libri
Qualcosa non torna. Se l’è chiesto Guia Soncini in un pezzo su Linkiesta, se lo chiedono quelli che “lavorano nel settore”, se lo chiedono quelli che vogliono scrivere. Gli unici che non si chiedono un bel niente sono le potenziali migliaia di acquirenti – acquirenti: non per forza lettori – di romanzi, e nello specifico di un titolo come Coltello di Rushdie. A peggiorare la ferita aperta, il fatto che uno dei pochi scrittori davvero famosi rimasti come Rushdie (tra gli ospiti del Salone) parli non solo dei “fatti suoi” (quello ormai lo facciamo tutti) ma dell’aggressione subita il 12 agosto 2022, a trentatré anni dalla fatwa emessa dall’ayatollah Khomeini dopo la pubblicazione de I versi satanici. Non cambia il risultato: il libro esce il 16 aprile, e vende 764 copie. Nonostante Rushdie.
Mentre passano sotto silenzio le fresche morti di Paul Auster e Alice Munro, in Italia forse abbiamo spazio solo per Andrea Camilleri. Trent’anni fa viene pubblicato da Sellerio il primo romanzo con protagonista Salvo Montalbano, La forma dell’acqua. Da lì scatta qualcosa, con quei potenziali acquirenti che sono mancati nel 2024 a Rushdie, ma non a Camilleri in tutta la sua carriera: i romanzi di Montalbano vengono comprati, ma soprattutto letti. La ricetta del romanzo perfetto non esiste, o forse basterebbe essere solo bravissimissimi come Andrea Camilleri? Difficile rispondere. Resta il fatto che milioni di lettori, negli anni, si sono appassionati alle vicende di un commissario e di un paese immaginario, Vigata, correndo a comprarne i romanzi a Bolzano come a Catania.
Camilleri non è stato più talentuoso di Fruttero e Lucentini, più immaginifico di Scerbanenco, più umido di Manuel Vázquez Montalbán: è stato semplicemente più furbo. Sebbene la sua grandezza di scrittore si ritrovi in piena meraviglia con opere come Il birraio di Preston, Camilleri ha restituito alle persone quello che sognavano: la medietà, le contraddizioni, una Sicilia maliziosa e non per forza da cartolina, una galleria di personaggi secondari da manuale e un protagonista imperfetto ma quasi mai sgradevole. Tutto questo, scritto bene. Non che i maestri sopra citati non lo avessero fatto, sia chiaro: ma a livello di percepito dalla collettività, pochi fenomeni hanno avuto la eco di Salvo Montalbano, con quasi ventotto romanzi e la sensazione che il personaggio sia sopravvissuto al genio del suo autore, scomparso a Roma nel luglio 2019.
In un’intervista rilasciata a Paola Jacobbi per Vanity Fair, Camilleri riporta i messaggi di alcuni suoi lettori: la deve finire di prestare le sue idee politiche a Montalbano. Montalbano è nostro e non le appartiene più. Questo la dice lunga, sullo spirito di un tempo in cui si leggeva tanto e in cui si pensava (stolidamente) che i personaggi ci appartenessero. Nei luoghi in cui sono state ambientate le vicende di Montalbano, resi celebri dagli sceneggiati in onda sulla Rai, non esiste bar o ristorante o negozio di scarpe che non esibisca la foto di rito con Luca Zingaretti. Che non viene trattato come una star ma come uno che ha prestato il corpo e il talento al personaggio. E dire che, di cose, Zingaretti ne aveva girate, e dire che, di film e serie, ne sono stati prodotti, nel ragusano; ma nulla, Montalbano è un’altra faccenda, un’altra eco. È appartenenza e rispetto. Il tema è quel che è arrivato dopo: si è pensato, e in certi casi le vendite hanno aiutato, di poter spremere come un limone il filone del poliziesco tormentato, con la volontà di percepirci tutti Simenon (o, appunto, Camilleri) e produrre una sterminata quantità di letteratura che a volte ha ottenuto dei risultati mirabili, in altri casi è finita nel dimenticatoio. Non è tanto questione di “epigoni”, non essendosi Camilleri mai intestato la paternità d’alcuna forma di poliziesco, né di protagonisti a servizio dello Stato ma dall’animo ombroso e introverso.
A trent’anni dalla nascita di Montalbano ci si dovrebbe chiedere perché. Perché gli italiani, a metà degli anni Novanta, si identificano in maniera quasi totale con questo commissario, allontanandosi da quello che potremmo definire il gustoso fritto misto dei polizieschi-tipo del Novecento: dal Santamaria di Fruttero e Lucentini, dal capitano Bellodi di Sciascia in quel miracolo di scrittura che è Il giorno della civetta, ma pure dal Philip Marlowe di Raymond Chandler, da Miss Marple e Poirot di Agatha Christie, da Pepe Carvalho di quel Montalbán che tanto ha ispirato lo stesso Camilleri, per comprare quasi sempre e solo Camilleri, e provarci pure a scrivere, come Camilleri.
In ogni quartiere d’Italia – ipotesi totalmente infondata – c’è qualcuno che ha iniziato a scrivere un giallo ispirato dalla scrittura colorita, profonda e irripetibile dell’autore di Porto Empedocle. Che ha avuto il talento e la fortuna di accaparrarsi il pubblico di lettori prima che diventasse consuetudine scrivere romanzi che non leggerà mai nessuno, o comprare cellulari con fotocamere che ci togliessero l’abilità a concentrarci su un testo scritto per più di dodici secondi. A parte, s’intende, i 764 di Rushdie.