Sempre più spesso gli studenti universitari del Mezzogiorno decidono di iscriversi negli atenei del Centro-Nord. Un'emigrazione che limita l'offerta formativa negli atenei del Sud.
Nel 2018 circa 158 mila unità studenti meridionali risultavano iscritti nelle università del Centro-Nord. Un fenomeno divenuto via via più consistente nel coro degli anni più recenti. Poiché nello stesso anno il totale degli studenti meridionali iscritti a un qualsiasi ateneo era di circa 685 mila, c’è stata una perdita netta di circa il 23% del totale della popolazione universitaria del Mezzogiorno.
Lo sostiene uno studio della Svimez, curato dai ricercatori Luca Cappellani e Stefano Prezioso, i quali, utilizzando il modello econometrico bi-regionale della Svimez, hanno stimato gli effetti complessivi, diretti e indiretti, prodotti dalla migrazione universitaria sul Pil del Mezzogiorno e del Centro-Nord. L’indagine chiarisce in modo inequivocabile la molteplicità di effetti negativi conseguenti a questa vera e propria emigrazione universitaria dal Sud.
Le conseguenze negative per il Sud
Innanzitutto, la progressiva perdita di capitale umano altamente qualificato, che nel lungo periodo rappresenta un forte freno alle capacità di sviluppo delle regioni meridionali. Poi, la riduzione significativa delle risorse finanziarie delle università del Mezzogiorno, conseguente sia alle minori rette pagate direttamente dagli studenti, sia alla riduzione dei finanziamenti statali, che sono correlati al numero degli studenti iscritti.
E ciò inevitabilmente limita la capacità di tali atenei di garantire un’offerta formativa di elevata qualità, che possa reggere il confronto con quella fornita dalle Università del Centro-Nord. Inoltre, vanno messi nel conto gli effetti macroeconomici, in quanto l’emigrazione dei giovani che si vanno a laureare fuori dall’area meridionale incide sulla distribuzione del reddito e, soprattutto, sui consumi, tra le due macroaree del Paese, a svantaggio del Sud.
In particolare, si determina una minore spesa per consumi pubblici connessi all’istruzione universitaria nel Mezzogiorno e un conseguente aumento nel Centro-Nord, che riguarda principalmente le retribuzioni dei docenti, i costi dei servizi didattici e quelli delle infrastrutture, quantificabile in poco più di un miliardo in media all’anno. Quindi, una riduzione dei consumi privati da parte dei residenti all’interno dell’area meridionale, compensata da un incremento degli stessi al Centro-Nord, valutabile in circa due miliardi l’anno. Infine, un aumento dei redditi da lavoro nel Centro-Nord, conseguente al fatto che una parte degli studenti universitari meridionali, una volta conseguita la laurea, trova lavoro nella stessa area, quantificabile in circa 1,2 miliardi l’anno.
Gli effetti sul Pil
Lo studio Svimez, esaminando l’intero periodo 2007-2018, stima una riduzione del tasso di crescita del Pil del Mezzogiorno di quasi il 2,5%, pari a una media annuale di -0,20%. Tenendo conto che in tale periodo nel Sud si è registrata una caduta del Pil del 10%, è evidente che, trattenendo nelle regioni del Mezzogiorno tutti gli studenti universitari meridionali sarebbe stato possibile ridurre la flessione del prodotto lordo di circa un quarto.
Tra il 2007 e il 2018 il differenziale di crescita del Pil tra il Centro-Nord e il Sud è stato del 9,6%, senza la fuoriuscita degli studenti universitari meridionali sarebbe stato del 5,3%, quasi un dimezzamento.
Le proposte Svimez
Il Pnrr destina circa 28 miliardi alla missione “Istruzione e Ricerca”, e, nello specifico, 3 al diritto allo studio, di cui uno ad alloggi per studenti e borse di studio e due all’accesso gratuito all’Università. La Svimez propone di rendere permanenti queste misure.