Perché le donne hanno difficoltà a uscire dalla situazione di violenza e a ricominciare? È solo il coraggio che manca? L'intervista ad Anna Agosta, presidente dell'associazione Thamaia.
La violenza sulle donne è un fenomeno ampiamente diffuso in Italia e nella nostra regione. Non coinvolge soltanto, come si può erroneamente pensare, i ceti sociali meno abbienti, i soggetti con uno scarso livello culturale e le fasce più deboli. L’invito delle istituzioni costantemente rivolto alle vittime è quello di denunciare, ma non sempre quest’azione si rivela in grado di proteggerle. A spiegarlo a QdS.it è Anna Agosta, presidente dell’associazione Thamaia, una onlus attiva da vent’anni a Catania che ha come scopo il contrasto alla violenza contro le donne da parte degli uomini.
Centro antiviolenza Thamaia, un percorso volto all’empowerment
L’associazione Thamaia ha attivato da molti anni un centro antiviolenza che offre un percorso di rinascita piuttosto che un semplice supporto psicologico alle vittime a cui garantisce anonimato, autonomia e gratuità. “La chiamata a un centro antiviolenza rappresenta il primo passo per iniziare un percorso che consente l’uscita dalla condizione violenta – spiega Anna Agosta -. È una decisione individuale e autonoma che la donna fa per se stessa e che le consente di entrare in contatto subito con un’operatrice formata sul fenomeno che deve fornirle tutte le informazioni utili, come quelle legali, quelle sul territorio e sui servizi di cui ha bisogno in quel momento.
(…) Dopo arriva il primo appuntamento, dove si inizia a cucire sulla persona il percorso più utile, in funzione dei suoi tempi, delle sue particolari esigenze. Tutto è volto al suo empowerment, ovvero al suo ripotenziamento, visto che non si tratta esclusivamente di una vittima, ma semplicemente di una donna che vive un momento transitorio di difficoltà dovuto alla violenza che può assolutamente superare. Ogni donna, infatti, ha un grossissimo potenziale che può mettere in campo per se stessa e per i propri figli, qualora ne abbia”.
Il profilo delle vittime? “Professioniste appartenenti al ceto sociale medio-alto”
Le difficoltà nel percorso di rinascita, tuttavia, non sono poche: “La prima sta nel riconoscere la violenza, nominarla. A volte coloro che telefonano rispondono negativamente alla domanda se abbiano subito una violenza fisica e solo dopo citano calci, pugni, schiaffi. Perché per loro rappresentano ormai la normalità e non più una violazione dei loro diritti – continua -. La seconda è quella di raccontare che l’aggressore sia il loro marito, il padre dei loro figli, elemento che talvolta le fa sentire a disagio. Soprattutto perché si tratta spesso di appartenenti al ceto sociale medio-alto, come professioniste, insegnanti, oppure casalinghe benestanti, che devono chiedere aiuto, superando il sentimento di vergogna nei confronti del cosiddetto ‘occhio sociale’ “.
Denunciare in sicurezza
Superate le resistenze emotive iniziali, le donne devono scegliere se rivolgersi alle istituzioni o meno, rimanendo a attente alla loro sicurezza: “Le vittime devono decidere se chiedere la separazione e denunciare chi esercita su di loro violenza. Un momento pericoloso in cui, se non sono già al sicuro, potrebbero essere esposte a violenze ancora più gravi – aggiunge Agosta -. Il consiglio è quello di denunciare solo quando si è al sicuro e quando si ha attivato la rete a propria protezione. Se questo non può accadere, perché si è in situazioni di emergenza a rischio vita, bisogna invece denunciare immediatamente e non fare più ritorno a casa”.
La separazione con figli minori e il comportamento degli aggressori davanti alle istituzioni
La presenza di figli minori in situazioni di violenza complica ulteriormente la questione ed espone le donne al rischio di rivittimizzazione: “Spesso i compagni e mariti, soprattutto se ci sono i figli, non accettano la separazione. E quando si presentano davanti alle forze di polizia o a un giudice sono sempre considerati ‘brave persone’ e le donne, invece, ‘coloro che fanno denunce strumentali, che vogliono attribuire colpe inesistenti all’ex’ – spiega il presidente -. (…) Le statistiche ci dicono che nell’ambito del processo civile la violenza non venga praticamente riconosciuta. C’è pochissima formazione dei giudici e dei Ctu che devono relazionare sulle donne. Questo inficia completamente il percorso di fuoriuscita dalla violenza. Nei processi penali, invece, si assiste talvolta alla trasformazione della vittima in imputata, che deve rispondere a domande infamanti”.
La condizione economica di svantaggio
A queste enormi difficoltà si aggiungono quelle economiche, altrettanto gravi: “Spesso a causa della violenza la donna non ha mai avuto accesso al mondo del lavoro, perché magari il compagno ha sempre preferito essere lui l’unico delegato al lavoro esterno alle mura domestiche con la scusa che ‘non ci fosse il bisogno che andasse a lavorare’, uno dei tasselli del più progetto volto a isolarla dal contesto sociale e amicale. Oppure ha dovuto interrompere alla propria occupazione – continua Agosta -. Per questo mettiamo a disposizione tirocini formativi, borse di studio, politiche atte al completamento degli studi pregressi. E poi ci sono ancora quelle che rinunciano al lavoro per paura di incontrare il proprio persecutore durante il tragitto o coloro che sono state licenziate perché, a causa della violenza, non hanno più avuto la necessaria capacità di concentrazione”.
Le denunce delle donne nella cronaca
Denunciare è davvero una soluzione? “I casi di cronaca ci insegnano che le donne che denunciano arrivano anche a morire, com’è successo a Vanessa ad Aci Trezza – aggiunge -. Un caso che ha scosso anche la nostra associazione. Ci siamo chiesti come mai la rete di protezione nei confronti di questa ragazza non abbia funzionato. Gli indicatori di rischio erano tantissimi e non sono stati letti nel modo corretto da coloro che avrebbero dovuto farlo. La mancanza di adeguata valutazione ha rimesso in libertà un soggetto pericoloso. (…) Noi del centro antiviolenza facciamo una valutazione degli indicatori di rischio e la aggiorniamo durante il percorso. Perché se la donna avverte un pericolo maggiore, vanno adottate delle misure di contrasto che possano proteggerla”.
Ivana Zimbone