“Una banda del 5% che percepiva una percentuale illecita su ogni operazione”
SIENA – Una cupola, un’associazione a delinquere e ora una banda: si sprecano i termini per disprezzare la vecchia dirigenza del Monte Paschi di Siena, finito nell’occhio del ciclone. A gettare nuova benzina sul fuoco ci ha pensato l’ex funzionario della banca d’affari Dresdner, Antonio Rizzo, il quale, ascoltato a Roma dalla Guardia di Finanza, ha confermato tutte le accuse nei confronti di Mps e ha parlato di “una banda del 5% che prendeva una percentuale illecita su ogni operazione” e che “c’erano dei pagamenti riservati” ai vertici dell’Istituto di credito senese. Dal vaso di pandora, ormai divelto, non passa giorno senza che esca qualche nuova notizia sull’intricata vicenda che getta ombre sulla Città del Palio. E certo il clima, con le elezioni politiche alle porte, si fa sempre più rovente.
Mps, una storia “tossica”.
La notizia che il Governo avesse concesso, in prestito, quasi 4 miliardi di euro (in pratica il gettito totale derivante dall’Imu) per salvare il Monte Paschi dalla bancarotta è vecchia, in quanto risale al giugno dello scorso anno. Ciò che ha scatenato l’ondata di indignazioni è il fatto, ai tempi oscuro, che questi soldi servirebbero per coprire le perdite causate da contratti (i famigerati “derivati”) e da diverse operazioni che, con un eufemismo, sono state definite rischiose. Hugo Dixon, giornalista dell’Internation herald tribune (riportiamo la traduzione tratta dalla rivista italiana Internazionale) ha raccontato i punti salienti della debacle del colosso bancario. “I guai della banca senese sono cominciati nel novembre 2007, quando ha acquistato dalla spagnola Santander un’altra banca italiana, la Antonveneta, per nove miliardi di euro. Un prezzo enorme visto che la crisi dei subprime era già scoppiata e che la cifra era superiore del 60 per cento a quella pagata dalla stessa Santander pochi mesi prima”. Questo è uno dei motivi per i quali la magistratura inquirente ha aperto un’indagine.
Come mai l’Mps ha pagato una cifra così elevata? Qualcuno, come Tremonti, va a cercare le responsabilità nelle file della Banca d’Italia, allora presieduta da Mario Draghi. In un recente tweet, infatti, l’ex ministro dell’Economia bolla come “stupefacente” il fatto che l’allora inquilino di Palazzo Koch nulla abbia fatto per far luce sulle poco trasparenti operazioni che avvenivano in quel di Siena. Bankitalia si difende affermando che, pur essendo al corrente delle operazioni, ignorava che fossero legate ad altre in perdita, in quanto Mps non aveva fornito documenti chiave. Ma non è stata solo la vicenda Antonveneta ad aver generato i buchi nel bilancio. L’attuale bufera è figlia di altre due operazioni: Santorini e Alexandria.
“La prima operazione – scrive Dixon per l’Iht – è stata compiuta nel 2002 con la Deutsche bank. (…) L’operazione permetteva a Mps di non iscrivere a bilancio le perdite subite in quell’acquisto a condizione che il valore del pacchetto azionario non scendesse al di sotto di un certo livello. Ma nel 2008 quel valore è crollato, e Monte dei Paschi ha perso circa 360 milioni di euro). “Alexandria” è legata all’acquisto di prodotti derivati ad alto rischio, i cosiddetti cdo squared, su cui la banca avrebbe puntato per ripianare il passivo accumulato con l’acquisizione di Antonveneta e con il fallimento dell’operazione Santorini. Ma già “nel 2009 minacciavano di fargli perdere circa 220 milioni di euro”.
Gravi accuse.
I vertici dell’ex Cda, ora, rischiano grosso. Ancora la storia dei derivati è tutt’altro che chiara e le singole responsabilità andranno accertate. Se fosse vero che sono state nascoste informazioni alle autorità di regolamentazione e ai revisori contabili, i dirigenti che hanno trattato i derivati rischiano condanne penali severe. I pubblici ministeri, nei giorni scorsi, hanno parlato di associazione a delinquere, accusa che penderebbe sul capo dell’ex presidente Giuseppe Mussari, dell’ex direttore generale Antonio Vigni, dell’ex capo dell’Area finanza Gianluca Baldassarri e del suo vice Alessandro Toccafondi, oltre a quei manager che si occuparono dell’acquisto di Antonveneta e delle successive operazioni finanziarie collegate a quell’affare. Tutti d’accordo, secondo gli inquirenti, siglarono quel patto segreto con i vertici del Banco Santander per truccare i conti e far salire il prezzo provocando una plusvalenza di oltre due miliardi di euro.