La Corte ha abbattuto un privilegio, fra tanti, che ha la pubblica amministrazione, vale a dire l’impignorabilità dei beni posseduti. La legge 220/10, di stabilità per il 2011, aveva normato che i creditori delle pubbliche amministrazioni non potessero pignorare i beni di quelle amministrazioni.
Diversi tribunali hanno chiesto alla suprema Corte se tale divieto non risultasse un inaccettabile privilegio. La sentenza è chiarissima: non è possibile che i beni delle imprese siano pignorabili e quelli della pubblica amministrazione, invece, no.
La questione rilevata dai tribunali è risultata fondata perché la norma si pone in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione, il quale prescrive che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
La Corte ha sottolineato lo sbilanciamento tra le due posizioni in gioco, esentando quella pubblica dagli effetti pregiudizievoli della condanna giudiziaria (violazione del principio di parità delle parti di cui all’art. 111 della Costituzione).
La ragione della legge censurata risiedeva sulla necessità della impignorabilità dei beni delle pubbliche amministrazioni, in quanto esse dovevano assicurare la continuità della erogazione delle funzioni essenziali. La Consulta ha ritenuto questo assunto strumentale, perché i beni pignorati possono essere lasciati in deposito al debitore ed essere ugualmente utilizzati.
Non è che sotto il profilo concreto questa sentenza risolva il problema del ritardo dei pagamenti, perché esso è endemico e deriva fondamentalmente da uno squilibrio gestionale degli enti pubblici, i quali salvaguardano sempre, comunque e in primo luogo, gli stipendi dei propri dirigenti e dipendenti, infischiandosene altamente se i dipendenti delle imprese creditrici restino all’asciutto anche per mesi e mesi.
Questo governo ha sbloccato i primi 25 miliardi dei debiti che le pubbliche amministrazioni hanno nei confronti del sistema delle imprese.
Ma, nonostante l’entrata in vigore della citata legge da oltre 7 mesi, le pubbliche amministrazioni continuano a non pagare nei tassativi 30 giorni previsti. Nè ministri nè presidenti delle Regioni, nè sindaci rispondono per queste gravi inadempienze, mentre l’articolo 2043 del codice civile prescrive tassativamente che chi causa danno, lo deve risarcire.
Il danno causato dalle pubbliche amministrazioni, quando non pagano puntualmente i loro fornitori, è incommensurabile, perché getta lo scompiglio sulla gestione finanziaria delle imprese che perdono il loro requisito essenziale: l’equilibrio fra entrate e uscite.
Nelle controversie che imprese e cittadini subiscono o attivano nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in caso di soccombenza di queste ultime, i giudici tendono a compensare le spese. Anche questa è un’iniquità, perché se le pubbliche amministrazioni perdenti fossero costrette a pagare spese legali ed onorari eviterebbero, quando hanno torto, di infilarsi in procedimenti giudiziari che hanno solo uno scopo dilatorio.
Se gli enti pubblici pagassero spese e onorari in caso di soccombenza, avrebbero poi il dovere di rivalersi sui propri dirigenti negligenti che, anzichè emettere provvedimenti in autotutela, si imbarcano in cause giudiziarie senza alcuna speranza di vincerle.
Anche per questo aspetto, portato oggi in evidenza, è necessario un intervento della Corte costituzionale e degli altri organi giudiziari perché non è ancora sopportabile lo squilibrio di trattamento tra il settore privato e quello pubblico.