Non solo è avvenuto questo disastro finanziario, ma la situazione si è proiettata negli anni a venire, tanto è vero che, secondo il rapporto annuale 2012 del presidente Antonio Mastrapasqua, le entrate complessive sono state 376 miliardi contro 385 miliardi di uscite. Per conseguenza l’ulteriore disavanzo del 2012 di circa 9 miliardi va a sommarsi al precedente avvenuto al momento della fusione per incorporazione.
Il disavanzo del nuovo Inps continuerà negli anni a venire perché lo squilibrio degli ex Inpdap ed Enpals non si può fermare. Ciò per due cause strutturali. La prima riguarda il privilegio dei pensionati pubblici che sono andati in quiescenza dopo brevi periodi di lavoro; con la conseguenza che hanno goduto, godono e godranno della pensione per un numero di anni nettamente superiore a quelli in cui hanno lavorato. La seconda causa è relativa al metodo di liquidazione delle pensioni, quello retributivo, che non ha tenuto conto dei contributi effettivamente versati.
Vero è che fra i pensionati pubblici ve ne è una minoranza che ha avuto liquidate le pensioni col metodo misto (retributivo/contributivo), ma è anche vero che quelli longevi continuano a percepire l’assegno liquidato a suo tempo con metodo retributivo.
Il danno per la collettività dai privilegi concessi ai dipendenti pubblici, anche pensionati, deriva dalla differenza dell’assegno mensile in atto percepito che sarebbe parecchio minore se fosse stato conteggiato col metodo contributivo, come per i privati.
Da quanto descritto si può capire il danno incalcolabile che ha fatto questa classe politica negli ultimi trent’anni quando ha aperto i cordoni della borsa assumendo persone nel settore pubblico in base alla raccomandazione e non in base ai concorsi pubblici, come previsto dall’art. 97 della Costituzione.
Democristiani e socialisti prima, centrodestra e centrosinistra dopo, hanno continuato a fare allargare la spesa pubblica improduttiva portando all’Italia un debito sovrano che è il più alto del mondo subito dopo quello della Grecia.
Ma lì, nel paese ellenico, l’Unione ha imposto il licenziamento di oltre 25 mila dipendenti pubblici. Qui, da noi, questo è un tasto che non si può toccare nonostante sui 3,4 milioni di cittadini al servizio dello Stato ne viene considerato unanimemente esuberante oltre un milione. Come a dire che se fossero 2,4 milioni, ma molto meglio organizzati, i servizi pubblici funzionerebbero meglio e darebbero soddisfazione ai cittadini e a chi li avesse gestiti.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze, Saccomanni, ha detto che su 725 miliardi di spesa pubblica – oltre 80 di interessi sul debito sovrano – si possono aggredire capitoli di spesa per 207 miliardi, sui cui fare una decurtazione di almeno il 30 per cento.
Non è una novità. Quando Enrico Bondi (il risanatore di Parmalat, poi venduta alla francese Lactalis, e attuale amministratore delegato dell’Ilva di Taranto) fu nominato commissario per la spending review portò quasi subito al presidente Monti un piano di risparmi per 40 miliardi. Il suo piano finì a binario morto perché prevedeva di tagliare privilegi a tante fameliche corporazioni che l’hanno avuta vinta.
Vediamo se Saccomanni sarà più bravo e fortunato e potrà tagliare una cinquantina di miliardi spesa improduttiva girandoli alle spese per investimenti di vario tipo fra cui le opere pubbliche. Mettere il bavaglio alla spesa è un’impresa improba, ma non impossibile. Ci vogliono onestà e capacità.