Ancora, da tempo evidenziamo l’altra iniquità fra dipendenti pubblici e privati, soggetti a regole diverse, che pongono i primi in serie A e i secondi in serie B.
Terza iniquità, componente principale della nostra linea editoriale, le garanzie di ogni genere (eccessive) di cui godono i dipendenti a tempo indeterminato e nessuna garanzia per tutti gli altri, nonché per Cocopro, Cococo, false partite Iva e via enumerando.
La Repubblica italiana è fondata sul lavoro, ce lo ricorda il primo articolo della Costituzione, ma nel mondo del lavoro le tre principali iniquità che abbiamo elencato separano figli e figliastri.
Il danno maggiore di questa situazione è che garanzie e blocchi hanno di fatto creato un’enorme disoccupazione e mantenuto nei rapporti lavorativi fannulloni e incapaci, perché non è stato consentito il naturale ricambio.
Il giovane Primo ministro sta tentando di intervenire nel settore economico-sociale più importante del Paese, cioé il mondo del lavoro, eliminando qualche garanzia che, tradotto, significa aprire l’accesso a tanti italiani, giovani e meno giovani, che non hanno avuto la possibilità di entrare nel mondo dorato del lavoro protetto.
I lavoratori garantiti, per senso di responsabilità, devono fare un passo indietro e i sindacati che li rappresentano non devono più proteggere in modo corporativo quelli che stanno bene – perché non è più possibile accettare che vi siano tanti disoccupati, fra cui bravi e competenti lavoratori, che non possano entrare perché le porte sono blindate – da quelli che stanno dentro e che temono la competizione di coloro che vorrebbero entrare.
Se vogliamo, è giusto che i lavoratori garantiti facciano un passo indietro e, transitoriamente, vadano in serie B per consentire a disoccupati e precari di salire anche loro in serie B. Non si possono accettare lavoratori di serie A e altri di serie D.
Per esempio, se un’azienda ha venti dipendenti e tutti e venti rinunciano al dieci per cento del loro stipendio, a parità di ore lavorate, quell’azienda può assumere due persone mantenendo inalterato il costo complessivo del lavoro.
Lo stesso potrebbe avvenire in qualunque amministrazione pubblica, statale, regionale o comunale.
Ovviamente, questa soluzione di buonsenso non verrà presa in esame perché chi guadagna una certa cifra non è disponibile a rinunciare neanche al dieci per cento, anche se il proprio atto avrebbe una grande valenza economico-sociale.
Il dibattito sul reintegro del lavoratore licenziato è del tutto privo di fondamento, come lo è lo stesso art. 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge Brodolini 300/79). è noto come nessun dipendente pubblico venga licenziato, e dunque per i quattro milioni di dipendenti pubblici (3,4 milioni stipendiati e seicentomila delle partecipate statali, regionali e comunali) il problema non sussiste.
Nel settore privato, fatti salvi i casi di discriminazione che vanno sempre combattuti, non si vede come un’azienda che abbia dei bravi dipendenti, per cui ha speso tempo e denaro finalizzati alla loro formazione, se ne privi per ricominciare da capo.
Si dirà che c’è differenza fra le grandi imprese, anche multinazionali, e il versante di cinque milioni di medi e piccoli imprenditori. Fra questi ultimi, tutti quelli che hanno fino a quindici dipendenti non hanno l’obbligo di osservare l’art. 18. Per tutte le altre, i casi in cui è stato invocato questo totem sono relativamente pochi. Dal che si deduce che continuare a discuterne è inutile, mentre vi sono questioni molto più importanti da risolvere.