Critiche verso la Campagna pro nascite del ministero della Salute. Beatrice Lorenzin: “E' un invito alla consapevolezza su se stessi”. Disoccupazione, precarietà, asili nido insufficienti e costosi: ecco perché non si fanno più figli
Giovani poco creativi che aspettano la cicogna. E una buccia di banana, posta su uno scalino, che sta lì a spiegare ai maschi italiani quanto sia “vulnerabile” la loro capacità di procreare. C’è anche questo nelle slide – strumento sine qua non della comunicazione governativa – diffuse dal ministero della Salute per sensibilizzare i giovani sul tema della fertilità e del rischio di denatalità, cioè di diminuzione delle nascite nel nostro Paese.
La campagna, che culminerà il 22 settembre nel Fertility day (con tavole rotonde in quattro città, tra cui Catania), ha scatenato nei giorni scorsi reazioni ironiche quando non rabbiose, tanto da costringere il ministro Lorenzin a fare macchina indietro (e a far rimuovere i materiali contestati). Critiche che possono essere riassunte attraverso la frase ad effetto usata da Gigi De Palo, presidente del Forum delle associazioni famigliari: “Non è un problema di semi, ma di condizioni in cui seminare”. Semplificando molto, come fanno gli under 30 a procreare se non hanno un lavoro, se è precario, sottopagato e non hanno, dunque, i mezzi per lasciarsi alle spalle casa di mamma e papà?
Occorre andare per ordine. Che in Italia ci sia un problema con le nascite è vero. La questione non va sottovalutata, anzi: di questo passo ci sarà sempre meno forza lavoro in grado di sostenere il sistema pensionistico, con la conseguenza che si andrà a riposo ancora più tardi nell’età.
A far scattare l’allarme non è soltanto il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna in età feconda (tra 15 e 49 anni), che seppur basso (1,37 pargoli per donna nel 2014) risulta in linea con quanto registrato dall’Istat dieci anni prima e grossomodo anche con la media dell’Ue (1,55). Quello che è precipitato negli ultimi anni è il tasso di crescita naturale, cioè il saldo tra nuovi nati e morti, tenendo conto anche dei movimenti della popolazione residente.
Secondo l’Istituto nazionale di statistica, nel corso del 2014 si è raggiunto il peggior risultato dal biennio 1917-1918, quando l’Italia pagava il suo tributo di sangue alla Prima grande guerra. Nel 2015 si è fatto addirittura peggio, toccando “il minimo storico dall’Unità d’Italia”: secondo le stime Istat, diffuse a febbraio scorso, al primo gennaio 2016 ci sono stati 15 mila nati in meno rispetto all’anno precedente. In generale, sottraendo deceduti ed emigrati, la popolazione italiana è scesa a 55,6 milioni, con una perdita di quasi 200.000 persone. Qualunque Governo con un po’ di sale in zucca dovrebbe fare i conti con questa realtà.
L’Istat afferma che per garantire il ricambio generazionale del nostro Paese ogni donna dovrebbe fare almeno 2 figli, ma è improbabile che si possa raggiungere questo risultato quando l’età media della prima gravidanza ha ormai raggiunto i 32 anni.
Il Fertility day avrebbe dunque un senso, se non fosse che prima andrebbero risolte tutta una serie di altre questioni. Non si può ridurre, come ha voluto far credere il ministro Lorenzin, la faccenda a una mera problematica sanitaria, quasi fosse una malattia. Significa buttare la palla fuori dal campo (e raccogliere, come è successo, i fischi del pubblico).
L’Istituto Toniolo, nel suo ultimo rapporto, ha intervistato oltre 9.000 giovani – tra i 18 e 32 anni – sulle loro intenzioni circa la possibilità di fare un figlio entro tre anni. Solo il 20% degli uomini e poco più del 30% delle donne intervistati si è dichiarato pronto al concepimento in un così breve periodo. Le statistiche, però, vanno messe a confronto con altre variabili.
Dal Rapporto giovani 2016 viene fuori anche che solo un terzo degli intervistati tra i 25 e i 29 anni progetta di rendersi indipendente dai genitori entro un anno. Non si tratta solo di scarsa volontà: la maggioranza di chi ha un lavoro precario non se la sente di fare questo passo. L’indagine, infine, svela l’acqua calda: in condizioni lavorative e sociali adeguate si metterebbero volentieri al mondo almeno due, forse tre figli, “senza aspettare la cicogna” come ammicca il ministero.
Il problema è sociale, caspita se lo è con un tasso di disoccupazione giovanile, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi, che a luglio è tornato a salire e ora lambisce il 40%. Peggio di noi, dati Eurostat alla mano, fanno solo la Grecia e la Spagna.
Di fronte alle critiche copiose, la toppa è stata peggio del buco. Nel precisare che la campagna è solo “un invito alla consapevolezza sulla propria fertilità”, Beatrice Lorenzin ha aggiunto: “Tra l’altro puoi fare gli asili, ma se poi si è sterili e non si riesce ad avere figli non abbiamo bambini da metterci dentro”. L’affermazione fa sorridere anche chi non ha figli in tenera età: allo stato dei fatti, c’è il problema esattamente opposto. Perché se il ministro fa riferimento agli asili nido “pubblici”, l’ultima rilevazione dell’Istat – relativa al biennio scolastico 2012-2013 – registra una soddisfazione della domanda “molto limitata rispetto al potenziale bacino d’utenza”, con solo il 12,3% dei bimbi residenti tra zero e due anni che riesce ad accedere al servizio.
In Sicilia, come più volte è stato scritto su queste colonne, soltanto il 5% dei bambini ha accesso all’asilo nido (il massimo lo fa l’Emilia Romagna, dove ha un posto il 26,8% dei piccoli) e solo un Comune su tre è in grado di offrire servizi per l’infanzia. L’Osservatorio nazionale “Prezzi e tariffe” di Cittadinanzattiva ha calcolato che nell’Isola il 42% dei bimbi tra zero e 3 anni è in lista d’attesa, con punte che arrivano al 67% a Palermo.
Non tutti i genitori in ogni caso se lo possono permettere: le rette mediamente ammontano a 201 euro al mese (la media nazionale è di 311 €, a Lecco si superano i 500 euro mensili).
La mancanza di servizi adeguati è con pochi dubbi tra le principali “cause” dell’infertilità ed anche del basso numero di figli per donna.
Save the children, qualche mese fa, ha dedicato un intero rapporto alle madri lavoratrici, definendole “equilibriste”. Quando non vengono licenziate perché rimaste incinta (nel 2011 l’ha dichiarato all’Istat l’8,7% delle madri ex lavoratrici), sono costrette a compiere salti mortali in un Paese che offre pochissimo. Quasi una lavoratrice su tre, con un figlio tra zero e tre anni, desidererebbe portarlo all’asilo, ma non può perché la retta è troppo cara o perché mancano i posti. E così sono costrette ad arrangiarsi, affidando la prole alle cure dei nonni. Ma questo non è sistematicamente possibile o meglio non lo è più: con genitori sempre più avanti nell’età, anche i nonni rischiano di non potersi più godere i nipoti.
Affrontare la questione da un punto di vista sanitario, dunque, non ha granché senso. Eppure il tema non è secondario: peccato che si è iniziato a parlarne dalla coda e non dalla testa.