La storia di tre giovani sbarcati a Lampedusa, scappati da Mineo per salire sul convoglio Catania-Messina. Rischia la vita per raggiungere Padova, i pendolari gli donano una colletta
CATANIA – La forza della disperazione, la fame di cibo, di libertà, la voglia di una vita migliore, a volte possono spingere a compiere gesti tanto estremi, tali da rischiare di rimetterci la pelle. Come ad esempio attaccarsi ad un treno in partenza, ed aggrapparsi forte alla coda del vagone, perché non si hanno i soldi per comprare il biglietto ma si sente di doverlo prendere a tutti i costi quel treno, sfidando la velocità, il freddo, il buio delle gallerie, il fumo, il rumore assordante delle rotaie. Lo ha fatto un ragazzo tunisino, uno dei tanti sbarcati in questi giorni a Lampedusa. Scappato dal Villaggio della solidarietà di Mineo a cui era stato destinato, ha raggiunto la stazione ferroviaria di Catania e da lì, lunedì sera, ha provato a prendere il regionale diretto a Messina delle 19.40.
Questa è la storia vista dal cronista. Il ragazzo è senza biglietto, non ha i soldi neanche per mangiare. Se ne accorge il controllore che gli fa capire che non può fare il viaggio, che deve scendere. Lui, che non parla italiano, capisce e lascia la vettura. Il treno zeppo di pendolari parte, ma dopo aver percorso non meno di 25 chilometri frena bruscamente nei pressi di Guardia Mangano. Dalla stazione di Acireale, da poco passata, era arrivato l’ordine: “C’è un uomo aggrappato al treno.
Fermatevi!”. Il capotreno scende, controlla, e scopre l’uomo, già pesantemente provato per quei minuti di pura follia. Se la forza delle sue braccia non avesse retto a sufficienza sarebbe potuto finire sotto le rotaie. Questo tipo di treno può arrivare anche a 140 km/h, dice il capotreno visibilmente sconvolto dalla scoperta. Il ragazzo viene fatto accomodare dentro, tra lo stupore dei passeggeri e in attesa dell’arrivo delle Forze dell’ordine. Intanto il treno riparte. Lo avvicino, gli faccio domande. Dice di chiamarsi Sabì, o qualcosa del genere, ma faccio una gran fatica a farmi capire perché non conosce neanche l’inglese. Lui è spaventato, pensa che io sia un poliziotto e che lo voglia portare via. Mi aiuto con i gesti e quando capisce che sono un giornalista cambia espressione e mi sorride.
Sabì, in realtà si chiama Chabi Ouaramhi, classe 1980 (poco più che trentenne). Leggo i suoi dati da un tesserino che mi mostra, tirandolo fuori dal portafoglio. Porta l’intestazione della Croce Rossa italiana e serve ad identificarlo, con nome, cognome, data di nascita, e persino una fotografia formato tessera in cui Chabi mostra un numero, il 1344, come fosse un pregiudicato appena arrivato in carcere. In fondo per la legge italiana, questo ragazzo è un clandestino. Porta con sé solo una piccola borsa, ha una bottiglietta d’acqua da cui cerca di centellinare ogni goccia, e tra il viso stanco e i vestiti sudici porta ancora i segni del viaggio in mare, un grosso maglione e un giubbotto di pelle a riparalo dal freddo con sopra ancora la salsedine. Mi dice di aver passato due giorni e due notti sulla barca per raggiungere Lampedusa dalle coste tunisine, e che ha dato mille euro allo scafista (mi fa segno con le dita), per portalo in Italia. Dall’isola, dove è sbarcato il 20 marzo, è stato poi trasferito al centro di Mineo da dove, però, è riuscito a scappare per raggiungere Catania con l’aiuto degli autobus. Chabi ha un fratello che vive a Padova ed è lì che vuole andare. Mentre parliamo con lui, tra i passeggeri si improvvisa una generosa colletta e il ragazzo si ritrova in mano quasi 60 euro, sufficienti per raggiungere il Veneto. Sempre se non cederà alla fame, spendendoli per mangiare.
Ma non c’è solo la sua storia. Qualche posto più avanti sono seduti due suoi compagni di viaggio, connazionali: Omar e Sameer. Sono fratelli, il più piccolo di ventotto anni. Hanno dato meno nell’occhio perché loro il biglietto ce l’hanno, almeno fino a Messina. Ma pure loro sono clandestini, sbarcati a Lampedusa dopo due giorni di mare, e poi trasferiti a Mineo, da dove sono fuggiti. Il loro sarà un viaggio più lungo, perché sognano di arrivare in Francia. Chissà se lo sanno che il governo francese ha chiuso la frontiera di Ventimiglia agli immigrati che vogliono attraversare il confine. Vagli a spiegare che la buona accoglienza dei siciliani forse non la troveranno da nessun’altra parte. In Tunisia guardavano la tv italiana (e per questo loro mi capiscono meglio) e facevano i venditori ambulanti di felpe, jeans, magliette e cappelli che indossano e mostrano orgogliosi. Quando gli nominiamo Gheddafi quasi saltano dal sedile e con ampi gesti delle braccia gli rivolgono un sincero “vaffa…” e poi, senza che stavolta glielo nominassimo, ripetono gli stessi aggettivi al loro ex presidente Ben Alì, a cui danno anche del “mafioso…lui e tutta la sua famiglia”. Vuoi vedere che anche loro sono tra quelli scesi in piazza a febbraio, protagonisti della rivolta che ha messo in fuga il mega presidente? Sono i loro occhi, però, a dire più di tutto, così profondi che ci leggi la sofferenza di un popolo intero, ma anche la forza di volontà che li ha spinti fino a quì. Come quella che ha spinto Chabi ad aggrapparsi al treno, il treno della speranza.
Mentre ci pensiamo il nostro viaggio di pendolari è finito. Quello dei tre tunisini ancora no. Non sapremo mai che fine faranno questi tre inconsueti compagni di viaggio. Per loro quello era il treno dei sogni. Ma il capotreno aveva già avvisato la Polizia che sarebbe arrivata a breve. C’è pur sempre una legge da far rispettare.