Fondi pubblici. Ma la Regione non si rassegna ed è pronta a mettere sul piatto della bilancia quasi 400 milioni per la Casa torinese per mantenere lo stabilimento “riveduto e corretto&rdquo
PALERMO – Investireste mai anche solo 1.000 euro per costruire sulle sabbie mobili, ben consapevoli che la vostra costruzione, prima o poi, sarà destinata a sprofondare? Ebbene, la Regione vuole investire (o scommettere, se volete) quasi 400 milioni sulla Fiat di Termini Imerese, stabilimento sul quale non crede più nemmeno il suo amministratore delegato Sergio Marchionne.
La Fiat ha spolpato l’osso pubblico finché ha potuto. Ma, nonostante sia alla canna del gas, c’è chi ancora l’alimenta con succulente bistecche, nonostante di filetto, alla Regione, non ce ne sia più…
Di sicuro c’è che la Fiat a Termini non ha futuro (in questo Marchionne è stato chiarissimo: “Dal 2011 niente più auto. Predisporremo un atterraggio morbido per la manodopera e poi convertiremo la fabbrica ad altri scopi”). Sono i numeri a dirlo. E i numeri dicono che produrre in Sicilia è totalmente antieconomico. Innanzitutto, anziché di produzione, bisognerebbe parlare di assemblaggio. Quasi nessuna parte di auto (fatta eccezione per i componenti di plastica per plance e serbatoi e alcune parti di sedili) viene infatti prodotta nello stabilimento di Termini. Circa l’80 per cento dei componenti arriva da altri stabilimenti italiani, il 20 per cento da quelli stranieri. E qui sta il punto. Per arrivare nell’Isola, questi componenti devono percorrere migliaia di chilometri in mare, per strada o in ferrovia (senza considerare poi le enormi difficoltà legate ai lunghi tempi di percorrenza in una regione senza infrastrutture adeguate). Il risultato? Produrre un’auto in Sicilia costa oltre 1.200 euro in più di qualsiasi altro stabilimento non considerando che ormai il mercato meridionale è saturo e quindi non remunerativo. Marchionne questi conti se li è fatti e difficilmente tornerà indietro sulla sua decisione.
Ma la “fuga” della Fiat non deve lasciar cadere la Sicilia nello sconforto. Anzi, deve essere l’occasione per ripartire in direzione di quella che è la sua vocazione naturale. La Sicilia, in virtù delle sue risorse naturali, del clima, dei siti culturali ed archeologici è (o dovrebbe essere) regione a vocazione turistica in primo luogo, quindi agricola.
Ma i dati Istat confermano come le scelte della politica vanno in direzione opposta o quantomeno in direzione sbagliata. è così che il turismo continua ad essere il trionfo del “mordi e fuggi”.
I visitatori accorrono prevalentemente nella stagione estiva, giusto il tempo di gustare un buon gelato per poi ripartire alla volta di altre destinazioni meglio pubblicizzate e comunque con strutture ricettive e un sistema infrastrutturale più adeguati a trascorrere una vacanza in completo relax.
Le mete del turista restano sempre le solite e, i piccoli borghi, scarsamente valorizzati, si ergono tristemente come città-fantasma. E che dire poi dell’agricoltura innovativa che permetterebbe alla Sicilia di rendersi autonoma (o quasi) sul fronte energetico attraverso la produzione di bioenergia? Nella nostra Isola circa 8 mila kmq della superficie coltivabile risultano sottoutilizzati. La coltivazione di piante da cui ricavare bioenergia potrebbe dare nuovo slancio all’economia.
Cosa dire poi dei servizi avanzati e ad alto valore aggiunto? Sono questi su cui si gioca il futuro economico della Sicilia, sono questi i servizi (ad alto contenuto d’ingegno) che permetterebbero di ottenere un plusvalore e quindi su cui sarebbe necessario investire.
I circa duemila, fra dipendenti diretti e dell’indotto, che perderebbero il posto in caso di chiusura, dovrebbero essere immessi in un processo formativo di riqualificazione verso questi settori, che costituiscono il futuro economico e sociale della nostra Isola. Il costo di tale processo sarebbe sicuramente inferiore a quello che la Regione sosterrebbe in caso di mantenimento dello stabilimento e metterebbe sul mercato figure professionali che hanno un futuro.