“Ci sono due questioni centrali, al momento. Un primo problema è che ci sono sicuramente delle negatività che fino ad adesso si sono manifestate da tutti i fronti in gioco: dalla politica, ai sindacati. Questo in parte per un retaggio culturale, in parte per abitudini e consuetudini che dagli anni ‘50 in poi si sono manifestate in Italia. In secondo luogo io non vedo attualmente un cambiamento reale dell’approccio. Se da una parte probabilmente è vero che le confederazioni sindacali hanno per anni lavorato per non consentire al Paese di crescere in momenti che sono stati topici e importanti, di contro oggi, in uno scenario complicato da una crisi che non ha avuto eguali e da una serie di difficoltà oggettive, non si riesce a vedere un cambiamento vero. Un approccio diverso non può essere solo il decisionismo renziano, tutto slogan. Io definirei Matteo Renzi un gran comunicatore, sicuramente anche migliore di come era Berlusconi. Però va preso atto che, per esempio, in un momento topico in cui le riforme, che probabilmente si sarebbero dovute fare chissà da quando, vengono portate sul tavolo, manca il confronto con i corpi intermedi”.
“Sicuramente una ragione mediatica. Se parlare direttamente con il popolo passa attraverso la concessione di 80 euro con il bonus che è stato dato l’anno scorso in un momento pre elettorale, portando ad avere un risultato molto interessante alle europee, questo atteggiamento per Renzi sicuramente diventa redditizio. Dopo di che, c’è da dire che l’operazione 80 euro non ha reso neanche un centesimo di Pil e quini in termini di consumi, attività produttive, o altro”.
“Intanto perché sono dati su un target specifico: una fascia di lavoratori che è comunque molto preoccupata. Chi stava peggio, gli incapienti, non ha ricevuto niente, chi stava meglio, ovviamente, neanche. L’interesse è stato solo elettorale, non sul risultato. Probabilmente 80 euro a un pensionato sociale avrebbero consentito a questo di spendere perché si tratta di gente con un limite di sopravvivenza molto basso. Ritengo sia dunque questo il motivo per cui, pur essendo state investite cifre importanti, tale operazione non ha prodotto risultato.
Faccio un esempio banale. Gli 80 euro sono stati dati in maniera abbastanza indiscriminata, con il solo limite dei 15 mila euro di reddito. Senza collegarlo, ad esempio, al quoziente familiare che era invece un parametro da utilizzare in questo caso. La situazione è stata che una famiglia con due monoreddito a 15 mila euro ha preso il bonus, un monoreddito a 16 mila euro con tre figli non l’ha preso. Questo dà la misura di quanto ci sia stato più un interesse di carattere propagandistico ed elettorale che altro. Ma il problema sta probabilmente a monte: perché questo Governo rifiuta il confronto e si rivolge al popolo, ma di contro si registra un abbassamento della partecipazione elettorale che, ad esempio, nelle ultime regionali ha raggiunto limiti inquietanti? Su questo va fatto un passo indietro. Renzi è diventato presidente del Consiglio in virtù del fatto che era segretario del Partito democratico, carica che aveva ottenuto con le primarie in cui hanno votato, nella migliore delle ipotesi, 2 milioni di italiani. Da quando ha preso il posto di Enrico Letta ha deciso che non ha bisogno del confronto. Ad esempio con le organizzazioni sindacali, che raccolgono 12 milioni di italiani che pagano tutti i mesi una quota e che delegano al sindacato la rappresentanza degli interessi del loro status. È singolare: due milioni di persone riescono a incidere e 12 milioni non pesano niente”.
“Condividiamo la necessità di fare delle riforme. Ad esempio partendo da quella fiscale, che deve per forza essere una riforma complessiva che consenta al quoziente familiare di essere l’elemento di discrimine perché poi su questo incide la crescita sotto zero certificata dall’Istat pochi giorni fa e, di conseguenza la capacità di sopravvivenza e spesa delle famiglie”.
“Per superare la logica che vigeva nel secolo scorso nelle relazioni sindacali, noi siamo portatori da sempre, da quando è stata fondata 65 anni fa la Cisnal, che poi è diventata Ugl, della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, ispirandoci al modello tedesco. È un concetto che abbiamo fissato, sin dal nostro primo statuto, come motivo fondate e associativo. Questo consentirebbe di superare lo scontro di classe, che è patrimonio di due secoli fa, e di arrivare ad avere consapevolezza che in un’azienda si raggiungono obiettivi di produzione se chi mette la forza lavoro e chi mette il capitale o le risorse ragionano e tendono allo stesso obiettivo. Che poi è quello della massima produttività. In questo modo si gestirebbero i momenti di crisi come questo con una minor conflittualità e minor disagio sociale. L’espressione massima di questo modello dovrebbe tendere all’individuazione degli obiettivi, al controllo di gestione su questi e alla divisione degli utili nel momento del raggiungimento. È una cosa che in Italia, malgrado previsto dall’articolo 46 della Costituzione, non viene assolutamente applicata”.
“Abbiamo scioperato contro il Jobs Act lo scorso 12 dicembre, assieme con Cgil e Uil. Siamo passati dallo Statuto dei lavoratori che vieta il controllo dei lavoratori al poter controllare addirittura email e computer. C’è qualcosa che non va. Per il resto, c’è una riforma necessaria che ancora non ha preso corpo, che è quella delle politiche attive del lavoro e del collocamento. Oggi i centri per l’impiego credo che non collochino più del 2-3% degli iscritti. Quindi è uno strumento che non funziona, non fanno il matching tra domande e offerta. Il mercato del lavoro va completamente aperto, cioè dato in mano a tutti quelli che sono in grado di fare il matching. Andrebbe poi ripensato tutto l’orientamento. Molte difficoltà nell’approcciarsi al mondo del lavoro derivano proprio dalla mancanza di una guida. Il centro per l’impiego fa una lista dei disoccupati, poi non c’è altro. Anche quando negli uffici pubblici si fa ricorso ad assunzioni temporanee, queste non passano mai dagli uffici di collocamento”.
“Rispetto all’impatto del Jobs Act, tutto quello che è il vero rapporto scuola-lavoro e che riguarda l’apprendistato è completamente crollato. L’apprendistato prevede che l’azienda sia così consapevole da assumere una persona con questo contratto che gli metta vicino qualcuno che gli faccia l’addestramento o, in alternativa che ricorra alla formazione atta a raggiungere la piena capacità lavorativa. Questo le aziende non lo vogliono, tant’è che confrontando il 2014 e il 2015, tra gennaio e aprile nel Nord Italia si è registrato il 9,3% in meno di contratti di apprendistato, nel Centro -19,4%, nel Sud -24,7%. Questo perché questa tipologia di contratto è esclusa dai benefici fiscali e non conviene, sebbene la formazione del lavoratore abbia un ruolo fondamentale”.
“Questa situazione, ancora una volta, dimostra lo stato confusionale complessivo su argomenti che incidono molto. Anche perché i dipendenti, tra corpo insegnante e collaboratori, nella scuola sono un target molto rilevante. Ma anche su questo è mancato il confronto con le organizzazioni sindacali, le rappresentanze complessive anche dei genitori, degli studenti”.
“Questo è il frutto di un sistema che ci siamo portati dietro a causa, da un lato di un approccio clientelare, e dall’altro di uno ideologico per cui ‘eravamo tutti uguali’. La posizione sindacale è però critica perché anche qui il passaggio del confronto è stato vicino allo zero. Sulla valutazione rilevo pure che il nostro è un Paese in cui tendiamo ad evitare la valutazione. Bisogna, inoltre, vedere come questa viene fatta: se deve essere ulteriore elemento di discriminazione non ha senso parlarne, se gestita bene può avere un ruolo positivo. Aggiungo che la valutazione deve passare per un riconoscimento del ruolo che, chi lavora nella scuola, può avere all’interno della società”.
“Il problema clientelare più che nel settore dei dipendenti della Pa, è presente nella dirigenza. Ci sono nomine neanche di livello politico ma partitico. Tutto ciò che si ferma sta in quel livello, dove vale di più essere fedeli che bravi. Il nodo sta nei dirigenti, è lì che bisogna iniziare a valutare.
“Rispetto agli accordi fatti recentemente con Confindustria riteniamo che la via dell’accordo interconfederale sia la meno praticabile. Noi, così come la Cgil, preferiremmo una legge che stabilisca quali sono le norme in maniera più chiara”.