Tuttavia, c’è una verità, che è emersa come un boato nell’inchiesta che ha travolto politici e burocrati di tutti i partiti, nonchè affaristi di vario calibro che certo non possono essere denominati imprenditori.
È un obbrobrio lessicale ed etico, infatti, la denominazione di imprenditore mafioso che tanti giornalisti superficiali affibbiano ai criminali. L’imprenditore, per sua natura, non può essere mafioso, perché nel mercato deve competere in modo corretto e non può ricorrere alla violenza da usare nei confronti dei propri competitori.
D’altra parte, il mafioso non può essere imprenditore, perché ottiene commesse per forniture, beni ed opere pubbliche in modo delinquenziale, coartando i terzi e corrompendo politici e burocrati. Dunque, o si è criminali o si è imprenditori.
Se a Roma la cancrena della corruzione ha colpito tanti gangli vitali, non è un caso. Nella Capitale d’Italia la pubblica amministrazione è dominante. Al suo interno il malaffare è diffuso, anche se la maggior parte dei dirigenti e dipendenti pubblici è onesta e corretta, ma ha il peccato originale della connivenza. Le persone perbene che vedono reati compiuti da propri colleghi hanno il dovere etico di denunziarli senza alcuna esitazione.
Non si capisce perché la Cisl, che ha la massima rappresentanza dei pubblici dipendenti, non ha detto una sola parola su questo tragico evento che sta arrecando disdoro su tutta l’Italia. Ma anche gli altri sindacati che rappresentano i pubblici dipendenti hanno il dovere morale di evidenziare l’imperativo di fare pulizia, di additare i corrotti e gli inefficienti e di emarginarli.
Lo stesso dovere etico grava sulla classe politica, nella quale vi sono tantissime persone oneste e corrette. Ma anch’esse, che normalmente sanno quello che accade, non muovono un dito e non dicono una parola sulle porcherie che fanno i loro colleghi. È proprio questa omertà e questo silenzio che contribuiscono alla diffusione della cancrena che è la corruzione.
Pensare che il sacco di Roma sia un fenomeno isolato è un modo per alimentare ulteriormente la diffusione della cancrena che, come è noto, non curata drasticamente, continua ad espandersi e a mordere tutte le parti del corpo sociale.
C’è una soluzione a questo pericolo, causa primaria dello stato di decomposizione economico sociale del Paese? Sì, c’è. Il Governo dovrebbe proporre, ed il Parlamento approvare, in trenta giorni, l’istituzione del Niai (Nucleo investigativo affari interni) in tutti gli enti pubblici ed in tutte le loro partecipate.
Uno dei primi provvedimenti del Governo Renzi è stata l’istituzione dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) nominando al suo vertice il magistrato Raffaele Cantone. L’Anac ha assorbito la Civit (Commissione valutazione, trasparenza e integrità delle pa).
Pensare che l’Anac possa scoprire la corruzione che si trova in tutti gli enti pubblici italiani e nelle loro partecipate è illusorio. Ecco perché in ognuno di essi devono esserci gli anticorpi costituiti dal Niai.
Serve a poco il responsabile anticorruzione previsto dalla legge 190/12 perché si tratta di un funzionario interno che fa anche altre cose, mentre il Niai dovrebbe essere un nucleo di investigatori che, a sorpresa, controlli tutti i dipartimenti e tutti i settori di enti e società pubbliche andando a snidare le sacche di ineffcienza che sono la fonte della corruzione.
Infatti, molti pubblici dipendenti tengono i fascicoli sui tavoli in attesa che qualcuno glieli solleciti col pagamento di una mazzetta.
Occorre ribaltare subito quanto precede con dosi fortissime di adeguate medicine. Oppure avverrà il crollo.