Forum con il responsabile del dicastero dell’Università e della Ricerca. Potenziare la simbiosi tra mondo della formazione e realtà produttive. "Le Pmi sono una grande potenzialità dell’Italia, ma se riuscissero a crescere in competenze questo le aiuterebbe molto"
di Giampiero Valenza
Intervistato dal direttore, Carlo Alberto Tregua, il ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, risponde alle domande del QdS.
In che condizioni è l’Università italiana?
“In Italia abbiamo un’ottima Università e questo è un grande valore. Vi è una qualità medio-alta ed è un’eccellenza concentrata non soltanto in poche sedi ma molto diffusa. Questo consente ai ragazzi, in qualsiasi zona del Paese seguano i loro percorsi formativi, di avere una formazione di un certo peso. In questa maniera si segue il principio costituzionale di dare un’opportunità a tutti per il massimo grado di formazione”.
È un ascensore sociale, dunque?
“Sì, è come un ascensore sociale. In un Paese che è fatto di grandi divari, è una delle cose più equilibrate. Un fattore di riequilibrio tra il Nord e il Sud, davvero molto importante”.
Oggi però c’è un problema di competitività a livello mondiale…
“Il tema dell’Italia è che la qualità dei nostri laureati è molto alta e questo è il motivo per cui trovano tante opportunità di lavoro all’estero. Noi viviamo però in un Paese in cui il livello della formazione non è molto valorizzato nel mercato del lavoro: il salario di un laureato in Italia è tra i più bassi in Europa. Questo è uno dei grandi limiti del sistema produttivo, in cui spesso non si valorizza la competenza dei giovani, quindi molti preferiscono andare all’estero, non solo perché ci sono opportunità migliori ma perché guadagnano di più. Se l’Italia vuole ripartire nel modo giusto, quindi partendo da quelle che sono le competenze, l’unico modo per un Paese avanzato per essere competitivo, lo deve fare valorizzando il lavoro intellettuale. I giovani devono essere pagati meglio, avere delle posizioni di maggiore responsabilità ed essere più valorizzati, perché possono dare un contributo migliore alla crescita”.
L’Università dà quel qualcosa in più per avvicinarsi al mondo del lavoro?
“Su questo ci sono stati molti miglioramenti negli ultimi anni. Fino a qualche anno fa le Università avevano una formazione molto teorica. Di recente, invece, si è lavorato su una maggiore simbiosi tra l’Università e il sistema produttivo, introducendo anche una formazione più pratica e fatta presso le aziende, perché ci sono tanti Atenei che collaborano con le imprese. Ci sono tanti studenti che fanno stage e questo rappresenta un miglioramento del sistema”.
Ma vi è un indirizzo generale verso questo genere di percorso?
“Ho sempre lavorato in questa direzione, da quando ero professore e poi rettore. Credo molto in questo contatto stretto tra il sistema produttivo, la società e l’Università. L’indirizzo politico del ministero va verso tutto ciò, senza perdere il valore della formazione teorica perché oggi questa rappresenta la base della competenza. Abbiamo una percentuale d’impiego dei laureati in Italia che è molto alta. Secondo i dati del consorzio Almalaurea, che si occupa del monitoraggio dell’accesso al mondo del lavoro, oggi avere una laurea vuol dire avere una possibilità molto alta di trovare un impiego, almeno in quasi tutte le aree, molto di più in quelle scientifiche come ingegneria o economia, per cui le richieste del mercato del lavoro sono alte. Sicuramente oggi studiare e laurearsi conviene. Dà maggiori opportunità”.
Trova interesse nelle imprese?
“C’è di valorizzare la qualità del capitale umano. L’ostacolo che trovo è l’eccessiva frammentazione del sistema imprenditoriale, con molte piccole aziende, molto spesso di gestione familiare. Ciò fa sì che loro poi tendano a non assumere persone con una formazione molto alta. Questa è la grande anomalia dell’Italia, rispetto alla Germania o alla Francia: due Paesi simili al nostro in cui la presenza dei laureati nelle imprese è più elevata. Ci sono realtà più grandi, più abituate ad assumere personale qualificato e a valorizzarlo”.
Ma in Italia ci sono cinque milioni di piccole e medie imprese, un tessuto che sorregge l’economia…
“Sono una grande potenzialità dell’Italia, ma se riuscissero a crescere in competenze questo le aiuterebbe molto. Oggi, per esempio, le piccole imprese già esportatrici sono quelle che hanno resistito meglio alla crisi, ma se uno vuole essere un esportatore deve avere una qualità dei dipendenti alta. Bisogna cercare di fare in modo che la leva delle competenze faccia crescere il livello del sistema imprenditoriale. Questo vale anche per la Pubblica amministrazione”.
La Pa ha avuto tante “ope legis”…
“Sì, anche perché ci sono state molte persone entrate senza titoli di studio o senza laurea”.
I dipendenti pubblici si sono invecchiati e hanno difficoltà a modernizzarsi. Si dice ‘assumiamo altri’, ma lo si fa su un numero di dipendenti pari a circa 3 milioni e 800 mila unità, compresi quelli delle partecipate. È un po’ un dilemma…
“Nei prossimi anni avremo un grande turn-over: andranno in pensione quelli che sono entrati con quello che fu il ‘grande allargamento’ della Pubblica amministrazione italiana. È una grande occasione per rilanciare la Pa partendo da due leve: in primo luogo la crisi che abbiamo vissuto ci ha fatto capire quanto sia importante il digitale. Oggi gran parte delle procedure possono essere fatte telematicamente e questo vuol dire risparmiare tempo, avere più trasparenza e fare molto in remoto. Dall’altro, la nostra Pubblica amministrazione, per come era impostata, aveva essenzialmente persone che avevano delle competenze giuridiche. Oggi invece è come un’azienda e ha necessità di profili economici, ingegneristici, manageriali, perché bisogna gestire i servizi. Questa occasione è importante non solo per migliorare la qualità degli assunti, ma anche per diversificare i loro profili professionali”.
Il punto focale dell’Italia è la Pubblica amministrazione. Il Governo può fare tutte le leggi più belle del mondo, ma chi le deve attuare è proprio la Pa. Che può fare il ministero per inserire queste competenze?
“Da un lato c’è il tema del reclutamento. Bisogna fare in modo che i concorsi siano basati sul merito e sulle competenze, che consentono di assumere personale qualificato. Poi bisogna avere dei profili che partano almeno dalla laurea. Stiamo lavorando, inserendo questa novità nel Piano riforme, per valorizzare il titolo del dottorato di ricerca nella Pubblica amministrazione. Guardiamo con interesse al sistema francese, che tradizionalmente ha una Pa molto qualificata. Vorremmo fare anche dei dottorati proprio con la Pa: questo è un modo per rafforzare le competenze interne. Lavoreremo soprattutto nel Mezzogiorno. Come ben sa, visto che siamo entrambi meridionali, uno dei grandi limiti del Sud è la scarsa qualità della Pa”.
C’è ancora una distinzione tra le lauree italiane?
“Dobbiamo stare attenti a superare una vecchia distinzione che c’era tra lauree di area umanistica e lauree di area scientifica. Spesso, e il caso della filosofia è un esempio, all’estero, in Inghilterra per esempio, i laureati in filosofia vengono maggiormente utilizzati per la gestione del personale perché si considera che quel tipo di formazione sia in grado di gestire il capitale umano. Dobbiamo uscire da alcuni schermi del passato”.
C’è da modernizzare…
“Sì, c’è da modernizzare in questa direzione, ed è uno sforzo che va fatto. Dobbiamo lavorare con la Conferenza dei rettori, che rappresenta l’organo di autogoverno delle Università. Ci stiamo proprio muovendo verso questa direzione”.
Trova resistenze?
“No, non le trovo. Rispetto ad anni fa è molto cambiata la percezione, anche dei giovani e dei docenti. C’è stato un ricambio generazionale e ci sono persone che vengono da esperienze diverse. Il tema è fare in modo che il valore dell’Università e dei laureati venga meglio valorizzato dalla società. Oggi abbiamo tante imprese che non assumono laureati e c’è la necessità di dare più spazio, nelle opportunità di lavoro, a chi ha studiato di più”.