Con pandemia una lavoratrice su due è stata costretta a cambiare orario - QdS

Con pandemia una lavoratrice su due è stata costretta a cambiare orario

Con pandemia una lavoratrice su due è stata costretta a cambiare orario

venerdì 05 Marzo 2021

Rapporto Ugl: solo nel 51% dei casi misure di conciliazione lavoro-famiglia sono applicate. Per l’82% delle intervistate la flessibilità fa bene alla salute e all’organizzazione del lavoro

ROMA – Con la pandemia è cambiata l’organizzazione del lavoro femminile, come emerge dai dati del questionario conoscitivo sulle problematiche delle donne lavoratrici nel periodo di lockdown presentato dall’Ugl.
Il rapporto evidenzia come nel periodo antecedente la pandemia più del 90% del campione di donne intervistato si recava quotidianamente sul luogo di lavoro, mentre l’effetto Covid ha fatto sì che quasi il 50% delle donne sia stato obbligato a cambiare orario di lavoro.

Dai risultati emerge che le misure di conciliazione vita familiare/lavoro, nel 51% dei casi sono presenti e applicate, mentre per il 15% degli intervistati non sono previste per il 10% pur essendo prevista non viene applicata. Questo conferma che la flessibilità di orario è stata recepita solo in parte dalla contrattazione collettiva e dagli accordi di secondo livello.

Il part-time rimane una misura adottata nelle varie aziende (44,4%) con una buona percentuale di fruizione (31,5%) da parte delle donne.
Anche l’istituzione della Banca ore è presente nel 33,5% dei casi. Per il più recente istituto della Cessione solidale dei permessi è stato recepito dal 26,2% delle aziende/ amministrazioni mentre non è ancora presente nel 31,9% delle realtà prese in esame. In merito alle misure relative alla genitorialità abbiamo la presenza di misure come l’estensione del congedo parentale e/o di paternità, ma risultano meno presenti i nidi aziendali o i buoni baby sitting. Come risulta poco presente l’adozione di misure di aiuto alle lavoratrici madri che rientrano dalla maternità attraverso la formazione e la riqualificazione delle competenze, pur essendo la maggioranza del campione impiegato in grandi aziende e nella P.A..

Le aree più mature del Welfare Aziendale oggi sono: sicurezza, prevenzione, conciliazione, sostegno ai genitori, mentre sono ancora indietro i servizi di assistenza, inclusione sociale, servizi di cura, sostegno all’istruzione figli/familiari, welfare di comunità.

In merito alla percezione sull’adozione di misure di flessibilità nell’organizzazione del lavoro, la stragrande maggioranza delle intervistate (82%) ha indicato maggior benessere familiare e la maggior parte (tra il 50% e il 70%) positivi vantaggi di salute, ovvero meno stress percepito e maggiore produttività dovuta a condizioni di lavoro favorevoli.

Sono state rilevate alcune criticità soprattutto in merito alla penalizzazione della carriera e per quanto riguarda i carichi di lavoro saltuari e non strutturati. Il connubio tra una maggiore produttività ed un benessere, anche se in questo senso inteso come complessivo dell’unità familiare, inclusa evidentemente anche la gestione della vita privata, è un nodo da cui costruire un sistema migliore. Altro dato da valutare è che, addirittura 122 persone hanno indicato come molto positivi i “vantaggi di salute”, ovvero meno stress percepito.

“Questo a significare che la possibilità di vedere organizzata la propria attività lavorativa in maniera più flessibile, comprensiva anche di strumenti di lavoro da remoto, abbatte lo stress in termini psicofisici, anche semplicemente perché riduce il pendolarismo lavorativo fisso, rendendolo non dico occasionale, ma non quotidiano”, spiega il sindacato.

Le prospettive del lavoro basate su fabbisogni diversi dei lavoratori e delle famiglie, la tutela della loro salute e benessere dovranno essere centrali per il futuro; individuare i nuovi bisogni sociali rispondendo con un’offerta aziendale distinta, con il rafforzamento della Normativa e la promozione del ruolo sociale sono questioni centrali per il futuro.

Le istituzioni, insieme alle parti sociali, dovranno favorire il Welfare quale strumento di rilancio dell’economia, sostenendo l’orientamento strategico, attenzionando diritti di lavoratori/trici, attivando relazioni positive tra welfare aziendale e redditività di business, creando solidità per l’economia, per il Paese. Dal questionario emerge che la parità tra uomini e donne è ancora lontana e gli organismi di parità nello smart working hanno maggiore difficoltà ad espletare le proprie funzioni.

L’83% delle donne intervistate dichiara che nelle proprie aree produttive siano presenti sia organismi di pari opportunità, ma 135 persone non rispondono alla domanda se detti organismi abbiano un ruolo di supporto alle lavoratrici. In merito all’efficacia della loro azione: dalle risposte emerge un 13,9% di netta soddisfazione ed un 27,8% di buon apprezzamento per un totale di 41,7% a fronte di un livello d’insoddisfazione pari al 58,3 %.

La nuova organizzazione del lavoro ha comportato un minor stress negli spostamenti (75,8%), maggiore produttività (69,3%) a discapito del rapporto con i colleghi che sembra peggiorato per il 56,4% dei soggetti. Così come è stato indicato un maggior carico di lavoro per circa il 65,7%. Alla domanda aperta che misura la percezione del disagio lavorativo, il 59,7% ha risposto in modo affermativo contro il 40,3%. Tra le cause individuate dal punto di vista personale segnaliamo il mancato riconoscimento del lavoro svolto, situazione di precarietà e bassa retribuzione.

In conclusione, sulla base dei dati raccolti, “si può dire che a fronte di alcune esperienze positive sull’adozione dello smart working segnalate nelle risposte aperte – sottolinea l’Ugl -, il quadro del disagio percepito fornisce un’immagine di lavoro femminile durante la pandemia di disorganizzazione, mancanza di condivisione e di supporto che si riflette a livello personale con il mancato riconoscimento del lavoro svolto in molte situazioni, di precarietà e bassa retribuzione. A questo va aggiunto il preoccupante dato fornito dall’ultimo report dell’Istat sul lavoro dove è emerso a dicembre 2020 il prezzo alto che hanno pagato le donne durante la pandemia: 101 mila occupati in meno di cui 99 mila sono donne”.

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