In questa intervista il regista, filosofo, professore e autore di Castelvetrano , racconta l'esperienza di "Makari" , il suo successo, e i progetti per il futuro. Tra festival e spettacoli teatrali.
Frank Cameron non
gli ha certo cambiato la vita. Ma gliel’ha resa di sicuro più divertente. Gli
ha concesso di avere qualche certezza in più sul “cannibalismo mediatico” dei
social, con qualche critica di troppo. Gli ha permesso di divertirsi,
divertendo. La parte, quella del regista americano e famoso, nella serie “Makari”,
l’ha messo in gioco.
Giacomo
Bonagiuso s’è messo in gioco. Un cammeo, ha detto, hanno detto.
Una sfida con il sorriso, nella sostanza. Professore, appunto regista, filosofo,
autore. In sintesi: un cittadino pensante, attivo. Perché in tanti anni di
attività professionale si è avvinto al diritto di cittadinanza come l’edera ad
un muro. E’ sempre stato sulla linea di frontiera. Perché chi sta a Castelvetrano
è sempre in frontiera. E chi parla di legalità, di trasparenza, di regole, con
la voce, le immagini ed i segni e simboli del teatro, non è soltanto in
frontiera.
E’ in prima linea.
“Makari” ha spopolato, con i suoi picchi d’ascolto e con le sue storie, tratte
dai racconti e dai romanzi di Gaetano Savatteri. Una serie vincente –
prodotta da Rai Fiction e Palomar – diretta da Michele Soavi,
che ha puntato su un segreto che è una certezza. Bonagiuso non ci gira attorno
e non se la tira. Va al sodo, come sempre.
Perché
“Makari” ha avuto così grande successo? Dove sta il segreto, se c’è
un segreto?
“Il segreto delle
serie televisive è sempre lo stesso. O meglio, il meccanismo con cui la
comunicazione attiva interesse nel grande pubblico è sempre lo stesso e si basa
su due pilastri: da un lato il riconoscimento, dall’altro, la leggerezza.
Il riconoscimento è quel meccanismo che si attiva nel pubblico quando gli fai
vedere in tv o in teatro cose in cui appunto si rivede. Nessuna provocazione,
nessuna inquietudine. Quando questo riconoscimento si veste di leggerezza,
anche con qualche stereotipo, ma non impegnativo, allora ci sono tutti gli
ingredienti per un successo.
“Màkari” ha avuto successo anche grazie alla
bellezza della Sicilia occidentale, una terra sempre molto
marginalizzata, dimenticata, associata sempre e soltanto all’attualità del
fenomeno mafioso, o alla potente massoneria. Camilla Cederna diceva che Trapani,
unica provincia siciliana, non ha un canto. Non esprime poesia, arte. Cederna
sicuramente peccava di superficialità; ma pagava quello scotto che Savatteri,
con “Makari”, cerca di risarcire. Cederna era vittima della nullificazione
artistica del trapanese, da sempre luogo di colonizzazione delle provincie
viciniori. D’altronde, per anni e anni, qui abbiamo importato a livello
culturale anche i sindaci famosi per le rinascenze”.
Ascolti, impatto
mediatico potentissimo. E c’è chi pensa di sfruttare il momento. Di fare
business. Il professore non si nasconde.
Potrebbe
nascere una sorta di “industria” di cinema e dintorni nel territorio
trapanese? Si potrebbe creare un sistema?
“Se la provincia
farà sistema sì, si potrà sfruttare questa onda, che – come è noto a tutti
quelli che si occupano di comunicazione – ha un suo tempo, una sua moda, una
mediana, un picco… E che è onda da sfruttare e mettere a sistema, come quella
di Camilleri-Montalbano. Nei luoghi di Vigata, oggi, campano di
rendita e d’immagine. Ma hanno saputo fare sistema. Ce la faranno i nostri
politici a creare le condizioni d’unità per uscire dal margine, o meglio per
fare del margine una possibilità?”.
C’è
il successo e l’entusiasmo per “Makari” ma poi c’è anche la realtà di
tutti i giorni. E qui le cose cambiano. La cultura, l’arte, rimangono spesso
fuori dalla porta. Lei ne sa qualcosa.
“La cultura e
l’arte del nostro territorio sono da sempre destinate a fare la Cenerentola. Da
sempre la politica ha messo le sue mani su tutto. Festival, rassegne, teatri. Qui
vige il motto “avà, ti lu fazzu fare”, come se potere significasse elargire
permessi, contributi e prebende ai propri accoliti.
Qui, i poveri
artisti e intellettuali campano come su una giostra a cavallucci a dondolo.
Prendono ossigeno quando i loro mecenati gli concedono un po’ di spazio,
tornano sotto terra quando si giunge al crepuscolo di una tornata di potere.
Così accade, da sempre. Anche per i forestieri che vengono qui a dirigere Festival
e Teatri. Qui ogni anno devi dimostrare che esisti da anni e anni, che
hai fatto gran belle cose… Uno sfinimento.
Qui, certuni poi
fanno come le stelle cadenti: brillano fino a che la loro stella politica è in
auge, poi tramontano. Per questo qui non si va quasi mai oltre la prima
edizione ben remunerata di qualunque cosa, tranne per rare eccezioni che si
contano sulla punta delle dita. La cultura locale, poi, è terribilmente
sconnessa, contorta, senza una precisa identità tranne in rari casi, piegata su
se stessa, e incapace di slancio.
Il problema di chi è rimasto qui è il pane
quotidiano, e – come diceva Marx – chi ha il problema del pane
quotidiano non può certo coltivare una identità culturale. È costretto a fare
la velina a qualche sindaco, per il contributo, o a fare le cose d’occasione, o
specializzarsi in anniversari, ricorrenze e giornate internazionali. O essere
testimonial di sigle varie.
Perché senza una cooptazione
dietro, dove vai? Una pena, mi creda. Eppure c’è tanto talento. Sprecato.
Cervelli all’ammasso ostaggi del bisogno!”.
Bonagiuso
è uomo di frontiera. E fa sentire tutto il peso di una condizione che segna,
che scava nella storia personale ma soprattutto, e di più, in quella
collettiva. Perché traccia il percorso di una comunità.
Non
c’è un solo Comune che non abbia l’assessorato e l’assessore alla Cultura. Per
fare cosa?
“Per costruire
identità, ed aprirsi alle altre identità. Chi non conosce, chi è culturalmente
indietro, è indietro anche nella vita. La cultura è un modo di vedere le cose
anche quando le cose non si vedono in maniera chiara e distinta. La cultura è
questa capacità di sguardo, oltre la diffidenza, oltre la quiete, oltre il bisogno.
La cultura
è un rito, e i riti servono a creare legami antropologici. Oggi la cultura è
mortificata costantemente, specie in centri in cui predomina ancora un aspetto
enciclopedico, che davvero non ha più nulla a che vedere con la cultura, oggi,
nell’era di internet, della rete, della realtà virtuale, della realtà
aumentata, delle reti, e della costruzione di futuro.
Mi creda: oggi
sapere Dante a memoria, o le misure delle colonne di un Tempio, serve davvero a
poco. Se non impariamo a creare una narrazione della nostra terra che abbia un filo
rosso, una capacità magica di trasformazione della cronologia in evento, in
storia, in racconto, allora siamo destinati agli opuscoli e ai depliant”.
Lei
ha contestato duramente la chiusura dei teatri, dei cinema, dei siti di
cultura. Rimane della stessa idea?
“Sì, rimango della
stessa idea. È inspiegabile che tutte le Chiese possano celebrare i culti e i Teatri
no. Non serve argomentare, non crede? Un Teatro, un cinema, una parrocchia, una
Chiesa, un auditorium, un’aula di scuola… sono tutte cose molto simili.
Capisco che
mobilitare un comparto significhi anche attivare l’indotto di quel comparto,
trasporti, ristorazione e tanto altro. Ma continuo a non comprendere perché nel
cinema parrocchiale si può trasmettere la Messa e non si può proiettare un
film.
L’esempio non è
fantastico. Come sa, è accaduto. Così come è accaduto che scuole di danza
possano far lezione all’aperto dicendo che fanno ginnastica, mentre se io
volessi fare azioni sceniche teatrali non potrei. Paradossi di norme non
stupide, stupidissime. In realtà si è lasciato che il settore cultura pagasse
il conto per intero. Tanto? Chi andava a Teatro se non pochissime persone?”.
Che
farà quest’estate? Cosa sta progettando?
“Sto lavorando a “Madres”,
un progetto creato in sinergia con l’Associazione “Abilmente Uniti” di Mazara
del Vallo, che raccoglie la mamme di ragazzi con disabilità. Metteremo in
scena uno spettacolo che si chiama “Mater, matri”, coniugando latino
e siciliano, e che consente a queste madri di compiere un racconto della
loro vita.
Poi sto lavorando
a “Pupa di legno. Tutta colpa di Pinocchio”, un testo che ho scritto in
piene pandemia e che racconta la pedagogia di Pinocchio dalla prospettiva di gatto
e volpe. Sarà uno sguardo inedito, perché i due protagonisti in realtà sono
femmine: La Gatta e la Volpe.
Poi, la pedagogia
di Pinocchio insieme ad Ezio Noto, i Disiu, il Dedalo Festival, Massimo
Pastore, il Tam. Sto anche lavorando
al Festival della Luce, che è diventato un festival migrante, proprio a
causa della impossibilità di farlo diventare territoriale a Castelvetrano.
Ci ho provato, ma qui qualcuno intende il potere come potere di portarsi via le
sedie la sera prima dello spettacolo. Non è proprio il caso di continuare”.
La sua frontiera,
ma non soltanto la sua, spesso ha avuto ed ha un nome. Ultima ma non ultima. Castelvetrano, la sua Castelvetrano.
“Lasciate ogni speranza voi ch’entrate?”
“Non ci sono segni
di ripresa. Qualcuno della vecchissima guardia si è accomodato al cuore del
potere grillino. Gli assi nella manica che dovevano insegnarci l’abc sono
fuggiti. La maggioranza ha perso tutti i pezzi del carretto multiforme che
l’animava per sete di potere.
La città è
desertificata, morta. Adesso ascoltiamo anche una serie impressionante di
sciocchezze, talune vetuste, altre legate a copia e incolla che dovrebbero solo
suscitare indignazione. Ma qui non ci si indigna neanche più. Qui ci si è
rassegnati. No, non ci sono prospettive, almeno fino a quando Alfano e i
suoi non andranno a casa”.