Il primo capitolo del romanzo estivo di Giovanni Pizzo, "Rotolando a sud". In questa puntata si parla di stanze, di scirocco e di gelo di mellone
Caldo da buco dell’ozono. Dune africane, lamiere incandescenti di macchine insabbiate. Infine il miraggio. Il chiosco delle correnti. Eravamo alla punta dell’isola, più a sud della costa settentrionale africana, terra di cinema e pomodori. Il chiosco era un lido di tucul, quei tipici ripari per difendersi dal sole cocente; era gestito da un’improbabile coppia in maniera decisamente rocambolesca.
Lei era lombardo-terronica, pare dei dintorni di Brescia, ma non ci giureremmo, lui, il compagno, terronico-lombardo, era originario di Portopalo. Ma non faremmo promesse neanche su questo. Smistavano ripari e lettini con precisione ed ordine svizzeri, praticamente a cazzo di cane. Le risse giornaliere per i posti e per quei salatissimi panini, acciughe, tonno e pomodorini, erano continue. A volte terminavano con l’intervento della forza pubblica.
” lei non sà chi sono io..”, un classico delle
dispute isolane, era un leitmotiv quasi costante. Il chiosco era la canonica
meta estiva di una varia umanità, prevalentemente etnea, ma non solo.
Soprattutto era il ‘suo’ guazzabuglio.
Quando parliamo di “suo” ci riferiamo a Gionni, detto Dip,
il nostro protagonista, suo malgrado. Il soprannome non proveniva dal fatto che
avesse l’appeal del noto pirata dei Caraibi cinematografico, ma perché, a testa
sua, si atteggiava “profondo”. Da cui Deep storpiato in quelle lande
in Dip. Ora, diciamocela tutta, profondo è un parolone. Magari profano, a volte
velleitariamente prometeico, financo prolifico. Ma profondo perché? Perché
andava a pesca a cercare totani?
Comunque sia stato coniato Dip gli era rimasto appiccicato
come quegli epiteti a volte sfottenti, a volte malevoli, che da queste parti
vengono definiti ‘inciuria’. L’inciuria può provenire dalla famiglia, o da un
modo di fare, o da un fatto particolarmente significativo. Per esempio gli
onorevoli, perché i consiglieri regionali qui in Sicilia vengono definiti
onorevoli, anche se sdisanorati, sono chiamati così anche dopo la cessazione
della carica. Se poi hai la sventura di essere stato “Assessore” sei finito. A
vita l’inciuria ti perseguiterà sottolineando la tua perdita di potere manco ti
avessero castrato come un ovino. Gionni si era presa l’inciuria di essere appellato
Dip. La colpa in gran parte era sua. Se non avesse fatto tanto il saputello,
con quei discorsi inopportuni, peggio dell’Alfredo di Vasco, sul senso dell’Es,
manco fosse un filosofo, forse si sarebbe risparmiato l’inciuria. Che poi
filosofo era pure poco aderente. Lui era fondamentalmente un gastrosofo. I suoi
neuroni albergavano nella pancia, tra l’intestino crasso e l’esofago. Infatti
soffriva di gastrite e sindrome del colon irritabile. Alcuni dicevano per i
troppi vodka martini, altri per le disavventure con le donne. La verità è che
sapeva fare una cosa sola da quando era approdato in quella vecchia tonnara.
Cucinare.
Gionni era capitato lì per caso alcuni anni addietro, in una
zingarata che terminò in una specie di buen ritiro permanente. La gente della
zona non sapeva cosa facesse e da dove venisse. Alcuni riferivano che era un
medico psichiatra deluso dalla professione, altri che era un agente di borsa
del narcotraffico sotto protezione, in sostanza stava lì ormai da un po’.
Alloggiava in un magazzino riadattato, che la rossa rais della zona spacciava
per un loft milanese, sulla balata di Marzamemi. Era praticamente rotolato li
dal piano inclinato della vita. Il suo rotolamento al contrario dei Rolling
Stones non aveva fatto rumore, era stato un rotolamento silenzioso. Di fatto
una mattina senza trambusto, come una biglia nella sabbia, era arrivato in quel
posto. L’altitudine del paese degrada da Nord a Sud ed era naturale che fosse
rotolato lì, la punta più a Sud. Ma era più una questione di latitudine che di
altitudine. Sperava che in quel parallelo, praticamente subtropicale, nessuno
lo andasse ad inquietare. Era già inquieto di suo e non aveva bisogno di
inquietudini altrui. Non era asociale era diversamente socievole. Non amava la
gente, la folla, gli assembramenti. Ai matrimoni con trattenimento, o più
sicilianamente ‘trattamento’, a buffet rimaneva praticamente digiuno.
È singolare questo modo siculo di definire il pranzo o la
cena nuziale. Trattamento. Probabilmente veniva dal fatto che gli invitati non
venivano intrattenuti ma proprio trattati. Alcune volte venivano trattati bene,
sontuosamente, con opulenza e con i guanti bianchi. Altre venivano mal trattati,
e se lo sarebbero ricordati a vita, a causa della nottata passata in bagno sul
water e per i litri di biochetasi scolati. Se il trattamento non era un
successo state certi che quel matrimonio non sarebbe finito bene. Era garantito
come il reflusso.
Gionni era umbratile più che ombroso, e non faceva nulla per
piacere agli altri. Possiamo dire anche che era scostante, un antipatico fino
all’arroganza. Ma non gli interessava, se ne fotteva. I siciliani usano il
termine fottere in maniera versatile, lo mettono su tutto come l’aglio e la
cipolla. Anche se hanno questa minchioneria del comando che gli fa passare in
seconda linea la cosa più bella della vita. Il fottere.
Lui, il nostro uomo, era all’ombra del tucul da un pezzo. Si
svegliava sempre presto e andava su quella spiaggia sempre vestito di lino bianco
e sempre all’ombra. Non sopportava il sole, al contrario del suo amico, steso
accanto, il cavalier Torrisi che, seppur di pelle chiara, rischiava
costantemente urticanti eritemi pur di sfoggiare un abbronzatura da figaccione
catanese in trasferta.
il cavalier Torrisi si era fatto un pacco di soldi vendendo
alle unità sanitarie locali pannoloni per anziani incontinenti, ed ormai era,
come dire, un uomo arrivato. Un po’ più in là, stile salamandre, si
crogiolavano le sorelline Messinese, la bionda e la mora. La mora era ballerina
di tango, nel tempo libero dall’attività di vendita di abbronzanti e cosmetici
nelle profumerie dell’isola. La bionda non vendeva profumi, era lei un’essenza,
sapeva di di papaya e di promesse, quasi mai mantenute. Teneva sulla corda più
di uno spasimante, una valle di spasimanti oseremmo dire. I quali abbindolati
dal suo aroma femmineo, come nel libro di Suskind, cascavano regolarmente ai
suoi piedi come gli achei trasformati in maialini razzolanti dalla maga Circe.
Era giunto mezzodì, l’ora in cui l’umbratile Gionni si
dileguava solitamente. Tornava al fresco della sua casa, dalle mura spesse e
dotata della cosiddetta stanza dello scirocco,
finalmente giungeva l’ora in cui i suoi neuroni si spegnevano. La stanza
era in una cantina sottostante, con un tortuoso condotto per l’aria e la luce. Lì
nella penombra, su una ‘sdraia’ in legno e cuscini di kapok, leniva l’afa dei
suoi pensieri. Doveva mettere a bagno il gelsomino, si ricordò, per il gelo di
mellone di quella sera. Ci sarebbe stata fiesta su in terrazza. Un’altra lunga
e calda notte.
GELO DI MELLONE
Ora sta cosa del gelo di mellone è cosa tutta palermitana.
In altre parti dell’isola non viene quasi contemplata. A Palermo è il segno dell’arrivo
dell’estate. Le pasticcerie, i forni, i bar più scalcagnati, a giugno si
riempono di dolci, cassate, cassatelle al gelo di mellone e chi più ne ha più
ne metta.
Ma il gelo in purezza è tradizione più casalinga, chi ha una
mamma, nonna, zia palermitana nasce nel gelo, avvolge il palato nella sua
consistenza, si inebria nell’aroma di Cannella e nel profumo di gelsomino.
Stiamo ben attenti, se non ci si mette il gelsomino si commette uno di quei
peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Che per noi palermitani è
ovviamente nato a Palermo.
La preparazione è semplice, dopo aver tolto tutti i semi, la
vera ‘camurria’, di un mellone di almeno 4 kg, se no non ne vale la pena,
frullate i pezzi e mettetelo a bollire con 400 gr di zucchero per 15 minuti. Se
serve più zucchero il mellonaro vi ha impaccato una cucuzza.
Mi scurdai di dirvi, un classico della cucina d’appendicite che
prima di mettere il tutto a bollire bisogna aggiungere l’amido per dolci, nella
giusta quantità per addensare il succo ma non trasformarlo in una mappazza. Quando
è ancora caldo versatelo nelle formine aggiungendo un po’ di Cannella, poca per
cortesia, gocce di cioccolato e l’ingrediente arabo il gelsomino.
Alcuni dicono che il dolce sia di provenienza araba altri di
derivazione arbereshe delle comunità intorno a Palermo.
Una cosa è certa il gelo di mellone vuol dire estate.
Giovanni Pizzo