Elezioni: Fdi come M5s
Durante la parte finale del Governo Renzi, conclusosi con le sue dimissioni del 7 dicembre 2016 e durante il Governo Gentiloni, il Movimento Cinquestelle crebbe a dismisura perché cavalcò, con la sapiente regia di Gianroberto Casaleggio e la grande popolarità del comico genovese Beppe Grillo, tutte le proteste che si erano annidate nel Popolo italiano per le malefatte dei governi degli ultimi decenni.
Iniquità, ingiustizie, evasione fiscale, criminalità organizzata professionale, Pubblica amministrazione allo sfascio, mancata digitalizzazione, Questione meridionale, carenza di infrastrutture essenziali ed altre gravi criticità esaltarono la protesta grillina, che il 4 marzo del 2018 raccolse ben il 32,7% dei consensi, pari a 10.697.994 voti.
Dunque, anche in questo caso, come in quello del fu Pannella, che molti di voi ricorderanno, la protesta ha acquisito consensi straordinari.
Ma venne il tempo del Governo, cioè l’assunzione di molteplici responsabilità per affrontare i problemi sopraelencati e da lì cominciò il declino del M5s.
Nacque il Governo Conte Uno che mise insieme il diavolo e l’acqua santa, cioè M5s e Lega. La maggioranza gialloverde approvò due leggi disastrose: Quota 100 e Reddito di cittadinanza dimenticando il principio che “Due torti non fanno una ragione”.
Continuò lo scialacquìo del denaro pubblico, regalando soldi a destra e a manca, a giovani pensionati da un canto e nullafacenti dall’altro, dimenticando che chi ha affidate funzioni pubbliche, “ha il dovere di adempierle con disciplina e onore…” (art. 54 della Costituzione).
L’incapacità di quel Governo ebbe termine con la guerra interna tra Conte e Salvini, che dette luogo ad una furibonda reprimenda in Parlamento del primo al secondo. Dalla rottura nacque il secondo Governo della legislatura, in questo caso giallorosso, fra M5s, Pd e Iv.
Neanche questo riuscì a fare ciò che serviva al Paese. Cosicché Renzi di fatto tolse la fiducia e fece cadere quel Governo, che Mattarella fu costretto ad affidare a Mario Draghi dopo aver constatato l’impossibilità che si costituisse in Parlamento una qualsiasi maggioranza.
Draghi, con questa multicolorata maggioranza, fa quello che può, salvo porre la fiducia su questioni importanti, per costringere tutti gli attori politici a votarla senza discutere.
Salvini in questa maggioranza che governa si sta logorando perché non riesce a fare le cose che intende, da un canto, ed è costretto ad approvare le altre che non vorrebbe fare.
Per conseguenza, continua a perdere consensi e lo dimostrano due circostanze: il fallimento dei referendum che hanno avuto appena un quinto dei votanti e il forte calo di consensi nelle elezioni amministrative dello stesso 12 giugno.
Di fatto, dopo Berlusconi, anche lo stesso leader leghista ha perso la leadership del centrodestra, peraltro fortemente rinforzato da tanti partitini di centro come quelli di Toti, Calenda, Lupi, Cesa e, in qualche caso, Renzi.
Abbiamo preso nota della débâcle del M5s. Dai due risultati possiamo quindi concludere, senza ombra di dubbio, che chi protesta vince e chi governa perde.
Da questo quadro esce vincitore il partito di Giorgia Meloni, cioè Fratelli d’Italia, che conferma la regola: chi protesta vince. Cosicché la cittadina della periferia di Roma (nata nel quartiere della Garbatella) è diventata di fatto la leader del centrodestra e, verosimilmente, la situazione si procrastinerà nel 2023 quando il centrodestra molto probabilmente vincerà. Fratelli d’Italia sarà il primo partito della coalizione e quindi alla Meloni competerà l’onere e l’onre di diventare primo ministro.
Facile profezia? Non sappiamo, ma a giudicare dai fatti di oggi, vi è un’alta probabilità che questa situazione si realizzi. Implicazione di quanto scriviamo è che la rappresentanza parlamentare di Fdi si quadruplicherà passando dal quasi 5% del 2018 al 20% del 2023, ciò nonostante il taglio dei parlamentare da 945 a 600.
La regola citata è la conseguenza della estesa ignoranza fra i cittadini-elettori e della noncuranza di metà di essi che hanno preso la pessima abitudine di andare al mare anziché compiere il diritto-dovere di contribuire alla scelta di chi ci dovrà amministrare con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.