In Sicilia la dispersione scolastica sfiora il 20%. Minori preda di mafia e lavoro nero
Lo scorso mese di aprile, è stata presentata da Marina Elvira Calderone, ministra del Lavoro e delle Politiche sociali, a dieci anni di distanza dalla presentazione dell’ultima ricerca sul lavoro minorile in Italia, una nuova indagine nazionale basata sul documento redatto da “Save the Children” dal titolo “Non è un gioco”.
L’indagine, oltre ad un’analisi del lavoro minorile, pone la sua attenzione sul fenomeno della dispersione scolastica, ossia la mancata, incompleta o irregolare fruizione dei servizi dell’istruzione da parte di bambine, bambini e adolescenti in età scolare. Il lavoro minorile nega il diritto di bambine, bambini e adolescenti allo studio, al benessere fisico e psicologico e a una crescita sana. I bambini e gli adolescenti che iniziano a lavorare prima dell’età consentita non solo rischiano di subire danni fisici e mentali, ma anche di compromettere i loro percorsi di apprendimento e ridurre notevolmente le opportunità di crescita educativa e sociale, dando così vita a un circolo vizioso di povertà ed esclusione. Il lavoro minorile, inoltre, viola il diritto di ciascun minore “di essere protetto contro lo sfruttamento economico e di non essere costretto ad alcun lavoro che compor rischi o sia suscettibile di porre a repentaglio la sua educazione o di nuocere alla sua salute o al suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale” così come sancito dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
In Italia la legge stabilisce la possibilità per gli adolescenti di iniziare a lavorare all’età di 15 anni a condizione di aver assolto l’obbligo scolastico di 10 anni – elemento che sposta quindi l’effettiva possibilità di accesso al mondo del lavoro al compimento del sedicesimo anno di età. La legge definisce poi l’obbligo formativo come il diritto/dovere dei giovani di frequentare attività formative per almeno 12 anni, fino all’età di 18 anni o, comunque, fino al conseguimento di un diploma di Stato o di una qualifica professionale triennale entro i 18 anni di età.
L’indagine quantitativa è stata condotta su un campione probabilistico rappresentativo della popolazione di studenti iscritti al biennio della scuola secondaria di II grado. Tra dicembre 2022 e febbraio 2023 sono stati compilati 2.080 questionari da ragazze e ragazzi di età compresa tra 14 e i 15 anni, in 15 province italiane e 72 scuole campione.
Secondo l’indagine si stima che 336 mila minorenni di età compresa tra 7 e 15 anni hanno avuto esperienze di lavoro in Italia, ossia il 6,8% della popolazione di quell’età. La maggioranza dei minori, il 53,8%, che dichiara di aver lavorato durante l’ultimo anno o in passato, ha iniziato a lavorare dopo i 13 anni, il 23,8% a 13 anni, l’11,1% a 12 anni. Una percentuale non trascurabile, tra i minori che hanno svolto una forma di lavoro, ha iniziato a lavorare quando aveva 11 anni (4,7%) ed il 6,6% prima degli 11 anni. I minori che svolgono attività lavorative in modo continuativo vivono percorsi educativi particolarmente accidentati. Il lavoro svolto prima dell’età legale consentita, infatti, influisce negativamente sull’apprendimento, riducendo il tempo dedicato allo studio, aumentando il rischio di bocciature, limitando la frequenza a scuola e alimentando così, in molti casi, il fenomeno dell’abbandono scolastico. Comprendere gli elementi determinanti del lavoro minorile è un esercizio molto complesso.
Sono infatti molteplici e spesso riferiti a fattori “contestuali”, di carattere socioeconomico (ad esempio come si struttura il mercato del lavoro o l’offerta educativa nei territori in cui vivono i minori) o culturale (ad esempio l’attitudine nei confronti del lavoro minorile o della scuola). È quindi particolarmente difficile rilevare le cause del fenomeno attraverso indagini statistiche che, per necessità di analisi, si focalizzano sulle esperienze individuali. Tuttavia rimane possibile appurare il livello socio-economico e culturale delle famiglie e la propensione al lavoro minorile. La variabile generalmente più rappresentativa del livello socioeconomico e culturale delle famiglie è il livello d’istruzione dei genitori e soprattutto quello delle madri. A questo si collega la preoccupante mancanza e la crescente carenza di risorse che si avverte sia nel sistema di istruzione, sia in quello della formazione professionale, con forti differenze tra Nord e Sud.
In Sicilia sono diminuite drasticamente le scuole che forniscono il c.d. tempo pieno perché i Comuni non riescono a garantire il servizio di mensa scolastica, un servizio che, un tempo, era garantito dai fondi comunali che poi, a fine anno, venivano rimpinguati dalla Regione. Da circa 10 anni, la Regione ha sempre più limitato i fondi che destinava a questo scopo. Una ricerca commissionata dal Miur ha messo in evidenza che, nei cinque anni di scuola elementare, uno studente al Sud riceve circa 1000 ore in meno di istruzione rispetto a uno studente al Nord.
È impossibile non collegare il dato relativo alla dispersione scolastica a quello relativo al lavoro minorile anche se sembra opportuno chiedersi se “è nato prima l’uovo o la gallina”. Il lavoro minorile è un’attrattiva a fronte della scelta di non andare a scuola, ritenuta quindi poco attrattiva, oppure la dispersione scolastica è una conseguenza del lavoro minorile?
In Sicilia il dato medio relativo alla dispersione scolastica si attesta al 19,4% superato da quello delle due principali città, Palermo nella quale il dato raggiunge il 20,4% e Catania che detiene il triste primato dell’isola facendo registrare un dato pari al 25,2%. Migliaia e migliaia di bambini e adolescenti, tra i 6 e i 18 anni, eludono l’obbligo scolastico e formativo alimentando il mercato del lavoro nero o le file della criminalità comune e organizzata. Si tratta di un fenomeno che pone la città di Catania a livelli di primato nazionale, prima tra le quattordici città metropolitane.
Altrettanto preoccupanti sono i dati concernenti la devianza giovanile, che collocano Catania tra i primi posti in Italia in rapporto al numero degli abitanti. Si è registrata una crescita costante dei procedimenti a tutela di bambini in tenera età alla presenza di disfunzionali condotte genitoriali, che spesso sfociano in maltrattamenti o in violenza di genere, e una crescita preoccupante di reati predatori, contro il patrimonio o legati allo spaccio di sostanze stupefacenti commessi da minorenni, talvolta non imputabili in quanto hanno meno di quattordici anni, utilizzati dalle storiche organizzazioni criminali del territorio come pusher o vedette delle piazze di spaccio.
La cessione di sostanze stupefacenti è divenuta la principale attività “lavorativa” e fonte di sostentamento per molte famiglie, che non si fanno scrupoli di coinvolgere i minorenni. In diverse occasioni sono stati tratti in arresto giovanissimi mentre espletavano il “turno di lavoro”, invece che trovarsi in classe a frequentare la scuola dell’obbligo, dotati di ricetrasmittenti, sostanze stupefacenti di varia tipologia, somme di denaro e agende dove segnare importi e clienti.
Molte delle scuole dell’isola, grazie alla forte spinta delle dirigenti scolastiche, hanno iniziato un percorso virtuoso che vuole cambiare la percezione che esiste della scuola trasformandola in un luogo di aggregazione, oltre che di formazione, un luogo in cui i ragazzi si possano trovare al centro di un processo culturale per diventarne protagonisti, a dimostrazione di quando fosse vera l’affermazione di Gesualdo Bufalino: “La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”.
Intervista al Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Giuseppe Vecchio
Il professor Giuseppe Vecchio, direttore del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania e ordinario di Diritto privato, è il Garante Regionale per l’infanzia e l’adolescenza in Sicilia. Tra i suoi compiti ci sono la vigilanza in Sicilia sulla “Convenzione dei diritti del fanciullo” del 20 novembre 1989 e delle successive convenzioni internazionali che tutelano i soggetti in età evolutiva, sui fenomeni di esclusione sociale e di discriminazione dei bambini e degli adolescenti, sulla comunicazione a mezzo stampa e audiovisiva sotto i profili della percezione e della rappresentazione infantile, sui fenomeni dell’evasione e dell’elusione dell’obbligo scolastico e sul fenomeno dei minori scomparsi; la promozione delle forme di partecipazione degli adolescenti alla vita delle comunità; la collaborazione con l’Osservatorio permanente sulla famiglia contro la pedofilia e la pedopornografia infantile. Il QdS l’ha intervistato per analizzare con lui le problematiche relative al lavoro minorile, definito precoce, a alla dispersione scolastica in Sicilia.
Professore, abbiamo gli strumenti giusti per affrontare il problema del lavoro precoce e la dispersione scolastica?
“Innanzitutto porrei un problema di fondo: sono i piccoli lavori che generano la dispersione scolastica o invece è la tendenza a non andare a scuola che porta alla ricerca di lavori occasionali? Personalmente ritengo che ci sia una scarsa propensione ad andare a scuola dovuta, spesso, a un atteggiamento culturale, in realtà inculturale, di sfiducia nei confronti della scolarizzazione o a situazioni ambientali difficili. Ci è stato riferito che una famiglia con tre minori di 10, 12 e 15 anni, è stata oggetto di un provvedimento dei Servizi Sociali perché i tre minori erano totalmente analfabeti. Il provvedimento era orientato a trasferire i minori in una struttura di assistenza per dare loro aiuto. In realtà la famiglia, nel momento dell’esecuzione del provvedimento, ha fatto sì che i tre minori fossero irreperibili. Nell’opinione corrente, purtroppo, il provvedimento è inteso non come un aiuto per i ragazzi ma come un’espropriazione dei figli. È chiaro che, in casi come questo, ci scontriamo con una forte arretratezza educativa da parte dalle famiglie che ritengono che non sia necessario scolarizzare il minore. In situazioni di questo genere si sviluppa, nella migliore delle ipotesi, una propensione a lavoretti precari, a forme di sopravvivenza che aiutano sia il minore sia la famiglia. Nella peggiore delle ipotesi, invece, diventano porte aperte nei confronti della criminalità organizzata che iniziano con semplici ragazzate ma che, nel tempo, portano ad affiliazioni con gruppi criminali. Il problema vero è che non abbiamo strumenti adeguati per avere contezza di queste situazioni. Non possiamo fermarci al solo dato statistico ma dobbiamo fare i conti con la mancanza d’interconnessione tra le informazioni istituzionali di cui disponiamo. Non esiste un rapporto tra l’anagrafe generale della popolazione e il sistema scolastico, rapporto che potrebbe portare a interventi immediati qualora il minore dimostra comportamenti non coerenti con il programma generale di formazione ed educazione. L’assenza di un allievo a scuola dovrebbe essere, in via informatica, registrata non solo a scuola ma anche in una banca dati che può essere in grado di darci un indicatore settimanale delle presenze, anche perché questo è il primo campanello d’allarme che ci permette d’intervenire. Purtroppo un dato esclusivamente annuale non ci permette di intervenire tempestivamente”.
Nell’ultima relazione di “Save the Children”, si pone l’accento su nuove attività sul web. Influencer, creatore di contenuti per i social sono nuove professioni che, in realtà sono facilmente alla portata di qualsiasi minore…
“È vero. Noi abbiamo un problema generale di classificazione delle attività lavorative, motivo per cui l’attività dell’influencer è sconosciuta. La tecnologia a disposizione dei minori oggi permette di accedere a questi nuovi lavori ma, in realtà, non sappiamo se, parlando dell’influencer, l’influenza sarà patologica o meno. Quanto avviene su TikTok o piattaforme simili, spesso attiene ad attività che possono essere sì redditive ma che sono al limite, se non oltre, della legalità. Anche fare il pusher può essere redditizio ed è un’attività che può svolgere anche un ragazzo di 9-10 anni. In questo caso, inoltre, dobbiamo tenere conto che la facilità di guadagno rende complicato far capire che la scuola e la formazione sono fondamentali per il proprio futuro in quanto trova utilità immediata e concreta dal guadagno istantaneo”.
A suo giudizio, quanto è sua disposizione per l’espletamento del ruolo che riveste è sufficiente?
“Mi sono insediato due anni fa. Al mio arrivo non ho trovato nulla, non ho trovato una struttura esistente e, quindi, ho dovuto iniziare da zero. La situazione dei Garanti regionali dell’infanzia è differenziata nelle varie regioni italiane. A livello nazionale siamo riuniti, come Garanti, per risolvere un problema: se analizziamo le singole leggi regionali, ci troviamo di fronte a una disomogeneità mentre è necessaria una disciplina comune delle competenze e delle funzioni. In alcune regioni i Garanti dispongono di strutture organizzative significative mentre in Sicilia il garante si avvale esclusivamente di ciò che gli può fornire l’Assessorato alla Famiglia. Inoltre, è scritto sulla legge regionale, che quello del Garante è un ufficio onorifico e, in quanto tale, non solo non ha un compenso ma non ha diritto ad alcun tipo di rimborso. Questo significa che non ho alcun rimborso per nessuno dei miei trasferimenti e ciò m’impedisce di essere presente in tutti i distretti socio-assistenziali regionali che sono 55, cosa che vorrei poter fare e che sarebbe molto utile”.
Cosa serve, quindi?
“Mi aspetterei una legislazione nazionale che metta ordine nelle funzioni dei Garanti regionali e li garantisca. Spero che il mio successore potrà godere di queste modifiche che lo porteranno ad avere strumenti più adeguati. In questo momento, in grande sintonia con l’Assessorato alla Famiglia, stiamo cercando di lavorare all’attuazione della legge sulle povertà, per quanto di competenza di quest’assessorato. Vogliamo dare alle famiglie sostegno preventivo. Nei quattro distretti di Corte d’Appello stiamo cercando di mettere in atto due tipi di azioni”.
Di che cosa si tratta?
“La prima è quella di sostenere le famiglie mediante la promozione di affidi cultural-educativi temporanei da parte di altre famiglie, per aiutare i ragazzi a frequentare la scuola. L’idea è quella del potenziamento dell’alleanza scuola-famiglia nei casi in cui la famiglia ha situazioni di difficoltà e debolezza e, si badi bene, non parlo di situazioni relative alla criminalità ma di quelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano e, pertanto, non riescono ad occuparsi dei figli oltre l’orario del tempo pieno. Abbiamo trovato molta disponibilità in questo senso. La possibilità dell’affido temporaneo permetterebbe ai ragazzi di vivere una vita sociale che non sia quella trasgressiva di strada. Il secondo strumento è invece quello di aiutare le famiglie che già sono in difficoltà per la presenza, nel nucleo, di provvedimenti giudiziari di vario ordine. Faccio riferimento al progetto ‘Liberi di scegliere’ patrocinato, sostenuto e avanzato dal Presidente del Tribunale di Catania che, però, ha bisogno di risorse e mi auguro che proprio alcune delle risorse previste da questa legge ne permettano l’attuazione”.
Parla la dirigente dell’Ics Sperone-Pertini, Antonella Di Bartolo
Antonella Di Bartolo, insegnante per 17 anni di Lingua e civiltà inglese nella scuola statale, da dieci anni dirigente dell’Ics “Sperone-Pertini” di Palermo. Situato in uno dei quartieri definiti ad alto rischio, negli ultimi anni è diventato un esempio virtuoso per le caratteristiche della sua presenza, che non si limitano all’orario scolastico strettamente inteso, cercando di aumentare la sinergia del rapporto scuola-famiglia. Il QdS l’ha intervistata per comprendere quanto incide la dispersione scolastica e l’eventuale relazione con il lavoro precoce dei ragazzi.
Professoressa, qual è la situazione del suo Istituto?
“Dobbiamo partire dal dato che si registrava dieci anni fa, quando io mi insediai. L’Ics Sperone-Pertini era in piena emergenza e si contava una dispersione scolastica pari al 27,3%. Era una delle scuole con il tasso più alto dell’intera regione”.
Da allora a oggi, cos’è cambiato?
“Intanto sono cambiati i numeri perché oggi si assestano attorno ad un valore del 2% di dispersione scolastica. C’è stato un abbassamento graduale, ma continuo, negli anni. Ci sono state, ovviamente, misure di diverso tipo ma tutte coerenti e con un’unica finalità: quello di rendere la scuola un luogo in cui si prova benessere, si sta bene. La scuola è un luogo bello in cui andare e, se non si viene a scuola, si perdono tante belle cose. Abbiamo, inoltre, lavorato molto sulla percezione della scuola come un diritto, non come un dovere. Questo è un messaggio che non è sufficiente veicolare ai bambini e alle bambine ma anche ai genitori, alle stesse famiglia”.
Perché è così difficile non tanto affrontare ma risolvere il problema della dispersione scolastica?
“Perché attraversa tanti ambiti, che sono familiari, economici, di povertà educativa, mancanza di servizi, scarsa capillarità dei Servizi Sociali. Si tratta di un problema molto complesso che riguarda, in prima persona, gli alunni e le alunne ma è causa e conseguenza dell’allontanamento delle famiglie dalla scuola. Le metodologie e le strategie messe in campo devono essere varie, confluenti, coerenti e perseveranti”.
Quanto incise nel vostro quartiere il lavoro minorile sulla dispersione scolastica?
“Ricordo due famiglie in cui questo si verificava, che ho chiamato. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Ci si trova di fronte a un livello di non consapevolezza alto perché, in questo caso, i genitori non si rendono conto cosa stanno togliendo ai loro ragazzi. È necessario fargli capire che lo studio è un diritto per i ragazzi e per i genitori c’è il dovere di metterli in condizione di frequentare. C’è anche la necessità di coinvolgerli in un ragionamento in cui gli fai immaginare il futuro dei propri ragazzi, fai capire loro che non possono perdersi alcuna possibilità che riguarda il loro futuro. Stiamo parlando di persone, non di atti burocratici. In entrambi i casi, attraverso il dialogo diretto, abbiamo risolto il problema. Nel caso del quartiere Sperone il lavoro minorile non è la causa della dispersione scolastica. Si tratta, essenzialmente, di un problema di non riconoscimento del diritto, del non essere una priorità e noi, da dieci anni, lavoriamo su questo”.
È cambiato quindi il rapporto tra la popolazione scolastica e la scuola?
“Assolutamente. Anche per i genitori, che oggi guardano alla scuola come un punto di riferimento, come una presenza positiva nello Stato che, nel quartiere Sperone, di là dalla presenza di Polizia e Carabinieri, è presente a singhiozzo. Per le strade dello Sperone le Istituzioni dovrebbero essere più presenti. Oggi la scuola è riconosciuta come un presidio dello Stato ma anche come un luogo amico, di accoglienza e di supporto. Questo lo dimostra il fatto che, durante la pandemia, non abbiamo avuto effetti negativi rispetto alle presenze scolastiche, anzi è aumentato il rapporto tra le famiglie e la scuola. Perché hanno capito che la scuola c’è sempre. E che è qualcosa d’irrinunciabile”.
Intervista alla dirigente dell’Ics “Rita Atria”, Concetta Tumminia
Concetta Tumminia è la dirigente dell’I.C.S Rita Atria, già Fontanarossa, nel cuore di uno dei quartieri più difficili del Sud. Si tratta di Librino, a Catania. Un quartiere che, assieme a Scampia, è il più grande centro di spaccio e smercio di droga d’Europa. L’istituto, che da 15 anni chiede di essere dotato una recinzione, un sistema di videocamere di sorveglianza e luce elettrica attorno all’edificio, è regolarmente oggetto di raid vandalici e furti. Il QdS l’ha intervistata per capire quale sia oggi il tasso di dispersione scolastica nel suo territorio e come il lavoro precoce ne possa essere la causa.
Da quanto tempo è dirigente di questo istituto?
“Oramai da quindici anni. Il mese scorso l’istituto è stato intitolato a Rita Atria. Nei diciotto anni precedenti ho insegnato, sempre a Librino e Villaggio Sant’Agata”.
Da quanto ha cominciato la sua dirigenza in questa scuola, com’è cambiato il dato relativo alla dispersione scolastica?
“Dobbiamo fare una precisazione. Quando si parla di dispersione scolastica si parla di non frequenza ma nella nostra utenza si riscontrava soprattutto una frequenza saltuaria. Questo dato riguardava sia la scuola primaria, le elementari, sia quella secondaria di primo grado, le scuole medie. Si trattava di un problema importante e abbiamo deciso di studiarlo e affrontarlo in maniera molto precisa”.
Si è trattato di un approccio scientifico al problema, mi sembra di capire. Che cosa avete fatto?
“Scientifico e chirurgico, direi. Parlerei, in maniera pragmatica, di buone prassi. Purtroppo siamo oberati da necessità burocratiche che, in realtà, hanno un’importanza relativa. Quelle che diventano invece elemento fondamentale, per contro, sono le buone prassi. Siamo partiti dalla formazione di un gruppo, elemento fondamentale per affrontare il territorio. La nostra scuola quest’anno ha 8 plessi e il prossimo anno ne avrà 10”.
Cosa significa questo?
“È necessario capire che non si prende in carico solo un’alunna o un alunno ma la sua realtà familiare. Non è possibile avere nessun risultato positivo se non si analizzano e comprendono le problematiche, gli eventuali svantaggi, la situazione socio-economico-culturale che alimenta il contesto familiare. Nella fascia dell’obbligo è necessario un riconoscimento familiare. Abbiamo chiesto aiuto a tutte le associazioni del terzo settore, che hanno risposto positivamente, per poter creare attività extra curriculari, quelle attività in cui ti puoi concedere il lusso di far diventare la scuola attraente. Attività sportive, teatrali, musicali, di giardinaggio. Questa è diventata la nuova offerta della scuola, diversa da quella che è possibile sviluppare al mattino”.
Perché è importante?
“Perché è possibile sollecitare le varie potenzialità di questi ragazzi e mettere a frutto le altre intelligenze che erano in loro. È altrettanto importante perché i ragazzi possono riconoscersi come persone capaci, non solo fallibili dal punto di vista prettamente scolastico. Ora partecipiamo a un progetto dell’Università Bicocca di Milano che si chiama ‘Scuole aperte e partecipate’ che ci ha dato la possibilità di creare le sinergie necessarie per poter tenere le porte della nostra scuola aperte dalle 7:30 alle 19, con attività varie. Siamo, nel tempo, diventati a indirizzo musicale. Siamo diventati non solo un punto di aggregazione ma anche di riferimento. In sintesi, oggi i nostri alunni si sentono protagonisti e abbiamo dato il via a una serie d’iniziative che coinvolgono i genitori, non solo i ragazzi”.
A fronte di quest’analisi del territorio che avete realizzato, avete avuto contezza di quanto il lavoro minorile abbia inciso sulla discontinuità della frequenza?
“Nel nostro territorio esistono molte famiglie che vivono grazie a lavori in nero e saltuari. Questi ragazzi che non venivano a scuola, in realtà, li vedevi regolarmente lungo i viali del quartiere. L’idealizzazione di Kenzo Tange, che l’ha progettato, si è dimostrata, nel tempo, inadeguata. A Librino non esistono semplici strade ma solo enormi stradoni tipici delle tangenziali. La dispersione scolastica, in un territorio che conta circa 80.000 abitanti, comporta non tanto un generico problema di lavoro minorile ma piuttosto un arruolamento all’interno della micro criminalità e che, in una piazza di spaccio come quella di Librino, è una risorsa enorme. I ragazzi, peraltro, sono non punibili e quindi particolarmente interessanti per la criminalità. È chiaro che in questa situazione, il nostro compito è diventato quello di rendere la scuola un luogo di sviluppo culturale, in cui si riesca a capire che esiste un’alternativa che permette loro di progettare un futuro diverso”.
Fare l’insegnante, oggi, in quartieri a rischio come quello in cui voi lavorate è una missione, quindi…
“Quello che oggi è richiesto ai docenti è un prezzo molto alto, sia in termini di professionalità sia di tempo. Nella nostra scuola nessun insegnante si può permettere di godere di tre mesi di ferie, come ancora si sente dire. Le nostre attività terminano alla fine di luglio e già dall’ultima settimana di agosto siamo di nuovo operativi”.
La storia di Turi, a soli 9 anni “deve campare la famiglia”
Oggi il QdS ha deciso di raccontarvi una storia. Una di quelle storie che non avremmo voluto raccontare, una storia vera e non è della Palermo raccontata da Danilo Dolci. È della Palermo del 2023, quella Palermo in cui si può morire di fame, quella Palermo in cui lo Stato non esiste.
Ho incontrato Giusy (nome di fantasia come quelli che seguono, ndr) diverse volte. All’inizio era chiusa nella sua gabbia che, nel tempo, ho scoperto essere una gabbia di vergogna. Quando andai a casa sua la prima volta mi colpì una cosa, tra le tante: il grande odore di umidità che ti avvolgeva entrando nella casa. Casa. Parola grossa, in questo caso. A Palermo i locali come quello in cui vive la famiglia di Giusy sono chiamati “catoi”, pianterreni nei quali abita la povera gente di Palermo. Poco più di 10 metri quadrati. Un unico ambiente. Un letto matrimoniale, due lettini singoli, un angolo cottura e un bagno, diviso da una tenda. Una piccola finestra nel fondo del locale. Una porta di ferro arrugginita che è tenuta aperta durante il giorno. I segni dell’umidità sono tangibili sulle pareti, scrostate, umide e ingiallite. In questo misero spazio vivono in sette: Giusy, suo marito quando non è in carcere, il fratello e i suoi quattro figli. Il giorno in cui ha deciso di parlare della loro vita mi ha accolto mentre stava allattando il più piccolo dei suoi figli, Alfio.
“Mio marito è carcerato, meschino, – racconta Giusy – da dieci anni tràse e nesce di prigione. Mio fratello, che vive con noi, è invalido. Io ho quattro figli. Lavoravo come sarta ma ho dovuto vendere la macchina da cucire”.
Turi ha nove anni. È il più grande dei suoi figli. È lui che deve “campare la famiglia” e per poterlo fare la scuola è diventata qualcosa di superfluo. “La scuola? Nemmeno io ci sono andata e mio marito pure. Tanino non può andare a scuola, deve lavorare…” racconta Giusy.
Ma che lavoro fa? “È a disposizione” Cosa vuol dire a disposizione? “Ci conoscono tutti nel quartiere, quando qualcuno ha bisogno chiama Turi. Oggi sta aiutando a scaricare il ferro, ieri ha accompagnato un suo cugino al mercato, domani… domani speriamo che qualcuno lo chiami”. Quando guadagna Turi? “Anche dieci euro al giorno, ogni tanto. Ma il venerdì guadagna ‘chiù assai’”. Perché? “Perché il venerdì c’è bisogno di portare in giro qualche cosa” Che cosa? “Non lo so. Ha il suo zainetto, una bicicletta che gli è stata regalata. Va nei quartieri belli, quelli con i palazzoni e le pareti lisce. Quelli in cui c’è una porta che divide il bagno dal resto della casa e ogni picciriddo ha la sua stanza”. Prendi il Reddito di Cittadinanza? “No, a noi u Reddito non ce lo danno” Perché? Avete fatto domanda? “Sì ma ci hanno detto che senza la residenza non mi danno il reddito e noi, la residenza, non ce l’abbiamo”. Posso aspettare Turi per parlare con lui? “Se c’avete tempo da perdere… forse rientra tra un’ora, forse due… e più sta fuori più piccioli porta a casa”.
Decido di aspettare. Esco per fumare una sigaretta. Un paio d’ore e sei sigarette dopo, un ragazzino in bicicletta arriva davanti alla porta arrugginita. Mi guarda con sospetto. Entra. Aspetto qualche minuto. Mi avvicino. Sento la voce di Giusy che spiega a Turi chi sono. “Trasìte”, mi dice Giusy. Quando entro Turi indossa una maglietta diversa da quella che aveva al suo arrivo. Giusy l’ha anche pettinato. Mi presento. Turi parla solo in dialetto. Cosa hai fatto oggi, gli chiedo. “Ho scaricato il ferro da vendere”. Guardo le sue piccole mani, callose come quelle di chi lavora da sempre. E domani? “Che ne so? U signoruzzo mi accompagna, domani vedremo”. Mamma mi ha detto che il venerdì guadagni bene. Cosa fai? “Porto cose. Anche il sabato, ogni tanto”. Ma cosa porti? “E che se saccio io… il venerdì mattina porto il mio zainetto e verso le cinque del pomeriggio lo vado a ritirare e mi dicono dove lo devo portare”.
Ma a scuola non ci vai? “La scuola è un lusso che non mi posso permettere, aio a campare la famigghia”. Ma ogni tanto giochi con i ragazzi della tua età? “Giocare è una cosa da picciriddi, io sugno grande”.
Saluto Giusy mentre mi chiedo cosa posso fare per lei e la sua famiglia. M’incammino e penso alla macchina per cucire di mia suocera che giace impolverata. Il giorno dopo busso alla porta arrugginita. Giusy mi apre. Le consegno la macchina per cucire. Mi guarda. Sorride. Non la vendere, Giusy… “Speriamo” mi dice.