Quel difficile rapporto padri-figli come un viaggio transgenerazionale - QdS

Quel difficile rapporto padri-figli come un viaggio transgenerazionale

Quel difficile rapporto padri-figli come un viaggio transgenerazionale

Giuseppe Paternò Raddusa  |
sabato 23 Marzo 2024

Riflessioni sulla genitorialità: incontro con Andrea Polo, autore di “Storie di padri. Storie di figli”

È stato complesso, il 19 marzo, districarsi dalle centinaia di immagini che millennials e baby boomer hanno dedicato ai padri nel Giorno a loro dedicato – i genzers meno, difficile sfruttino l’affetto per qualcun altro se non per discettare delle proprie fragilità. In un’epoca in cui non abbiamo ancora compreso bene se evitare di fare figli sia rivendicazione di autonomia o semplice necessità – molti thirtysomething non hanno i soldi per comprarsi un appartamento con la stanza bimbo in più – sbucano le foto nelle storie di Instagram, a ricordarci d’avere dei padri.

Poi, come ogni volta che sfruttiamo i social per apparire appetibili al pubblico illudendoci che i nostri palinsesti siano migliori di quelli degli altri, siamo bene a conoscenza del fatto che mentiamo: condividiamo foto di genitori ormai sulla settantina che non degniamo neppure d’una telefonata, eppure ci affrettiamo a esporli alle nostre conoscenze più o meno virtuali, senza neppure sapere bene perché. O meglio, lo sappiamo bene: o è il solito tema sull’esibizionismo, o forse è quello che scriveva Willa Cather, quando sosteneva che tra noi umani esistono solo due o tre storie, e si ripetono dandoci l’illusione di non essere mai avvenute.

E forse abbiamo davvero avuto tutti due o tre tipi di padri, e saremo due o tre tipi di padri, di figli, di nipoti, con possibilità combinatorie di genitorialità che in fondo sono sempre le medesime – come sono medesime le scritte sulle foto dei papà con noi bambini nelle foto sui social, anche se quelle immagini sono diversissime.

È qualcosa su cui riflettevo in occasione del lancio d’un nuovo romanzo, “Storie di padri. Storie di figli” (Paesi Edizioni, 2024), firmato da Andrea Polo. Polo, padre di due figli, esperto di comunicazione che nella vita e nella carriera si è misurato sia con scritti legati alla crisis therapy che alla genitorialità (sul tema tiene un blog per Il Fatto Quotidiano), ha presentato la sua opera a Milano, al caffè-libreria Lapsus; e l’incontro da lui gestito con garbo è stato ben più che la classica merenda con l’autore. Polo, nel romanzo e nelle parole che ha condiviso con il (numeroso) pubblico, ha dimostrato come nella maggior parte dei casi si è tutti genitori, figli, nipoti e pronipoti negli stessi, prevedibili, nostalgici, dolorosi, amari, indimenticabili modi.

Ho perso mio padre nel 2022, inizia Polo, che confessa d’aver ripreso in mano carte, documenti, vecchie foto che lo hanno riconnesso sia al ricordo del genitore, che alla storia del nonno, che al presente vissuto dai figli. Una storia che dura quasi centocinquant’anni, un romanzo transgenerazionale, come scriverebbero quelli scarsi, che mi ha permesso di capire tante cose di mio padre e di mio nonno, un ex servo pastore che ha imparato a leggere e a scrivere ed è diventato ferroviere, cambiando la sua vita, e quella della mia famiglia.

Un romanzo senza orpelli, ammette Poli: nella scrittura sono stato nudo, trattando storie e argomenti così delicati. E proprio la scrittura gioca un ruolo, più che catartico, di sapiente regolatrice: un’abilità che riordina e placa memorie, pensieri e oggetti – lo stesso Polo arriva in presentazione con un orologio appartenuto al nonno ferroviere, regalato dai colleghi il giorno del pensionamento.

Polo continua ricordando le fatiche del nonno e l’affetto di suo padre, un genitore mai invasivo, papà era un medico presente anche nella distanza fisica, quando lavorava a 300 km da casa. All’epoca non me ne rendevo conto, prosegue Andrea Polo, ma se fossi caduto avrei avuto chi mi reggeva le spalle. Chiaro, quella di Storie di padri. Storie di figli è la storia dei Polo, i presenti e quelli di ieri; eppure le parole dell’autore forse afferiscono ai sentimenti, alle percezioni, ai dolori di quelle stesse non riesce a comunicare coi propri padri, preferendoli in un ricordo fotografico.

Polo ci ha tirato su un romanzo, attività forse un po’ più impegnativa del caricamento d’una story che dura solo 24 ore – e cosa sono 24 ore, rispetto a una vita intera? – Adesso ci sono io, conclude Polo, che faccio il padre, e procedo per tentativi, come qualunque genitore, perché nessuno ti dà un libretto d’istruzioni. Cerco di creare, giorno dopo giorno, un rapporto che trasmetta loro qualcosa.

E forse, nel sentire le parole di Polo, mi viene da chiedere se forse Willa Cather non avesse davvero ragione: Quando ero piccolo mi ripetevano sempre quanto somigliassi a mio padre, credevano di farmi piacere ma io mi offendevo: ho sempre cercato di far notare quello che avevo di diverso. Oggi, invece, ho imparato ad accettare quello che tra noi è uguale, e mi piace. Se lo sintetizzassi integrandolo con qualche memoria del sottoscritto, mi basterebbe tirare fuori una bella foto con il mio, di genitore, per ficcare tutto in una story IG e ricordare a tutti di essere figlio pure io.

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