La Corte Costituzionale ha affrontato il problema della cosiddetta “dosimetria della pena”
Nelle sentenze n. 86 e n.91 del 2024 la Corte Costituzionale ha affrontato il problema della cosiddetta “dosimetria della pena”, la determinazione cioè del quantum di pena da comminare per ogni reato. Stabilire l’entità della pena rientra nelle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore nel campo della politica criminale. Discrezionalità che, peraltro, ricorda la Corte, non deve mai sconfinare in irragionevolezza.
Nella sentenza n. 86 la Corte si è confrontata con un caso di rapina cosiddetta “impropria” di cui all’art. 628, secondo comma Codice penale, commessa da più persone che, dopo aver prelevato dagli scaffali merci per un valore di 6,19 euro avevano minacciato e strattonato il personale intervenuto per recuperare gli articoli sottratti e si erano quindi allontanati. La Corte ha ritenuto che la pena prevista in questi casi, così elevata nel minimo edittale (ben 6 anni!) impediva di tenere nel debito conto elementi che riducevano significativamente la concreta offensività del reato commesso, quali il modico valore dei beni sottratti e le modalità seguite, consistenti in blande minacce verbali e spintoni. Ne conseguiva la violazione dell’art. 3 Costituzione per l’irragionevolezza della norma che ricomprende fattispecie a gravità variabile ma tutte sanzionabili con lo stesso, di rilevante entità, minimo di pena. È leso altresì l’art. 27 Cost. in quanto la sproporzione della sanzione inflitta a fronte dell’effettiva gravità della condotta viola il principio di individualizzazione della pena che va differenziata in base al diverso grado di offensività dei comportamenti (primo comma), e ne compromette la funzione rieducativa (terzo comma).
Alla stregua di quanto deciso nella sentenza n. 120 del 2023 in tema di estorsione, reato con caratteristiche simili (art. 629 Codice penale), la Corte con sentenza additiva ha introdotto nell’art 628 Codice penale la previsione di una diminuente, fino ad un terzo del minimo della pena, per quei casi che, per le modalità con cui è stato posto in essere il reato o per la tenuità del danno prodotto, presentano un minor grado di disvalore.
Analogo il percorso argomentativo sotteso alla sentenza numero 91 del 2024 emessa con riferimento ad un episodio di immagini pornografiche di ragazze di tredici e quattordici anni ottenute on line da un diciottenne. Per questi casi l’art. 600-ter, primo comma n.1) c.p. (“Pornografia minorile”) prevede una pena dai 6 ai 12 anni, oltre alla multa. Il giudice penale individuava una serie di elementi che suggerivano una riduzione della pena, ritenuta eccessiva: la giovane età dell’imputato, poco più grande delle sue vittime, le modalità, scevre da violenza o manipolazione psicologica, con cui il ragazzo si era procurato le foto (di contenuto, peraltro, “limitatamente” pornografico!), l’assenza di diffusione delle immagini ottenute. Il codice non prevede una diminuente e neppure si possono applicare le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis Codice penale in quanto esse sono rivolte a mitigare la misura della pena in presenza di alcuni indicatori soggettivi e oggettivi e non a correggere l’eventuale, come in questo caso, sproporzione del minimo edittale. Pertanto il giudice anche in questo caso riscontra la violazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione perché la norma difetta di quella c.d. “valvola di sicurezza”, qual è l’attenuante per i casi di minor gravità all’interno dell’ampio ventaglio di fattispecie astrattamente configurabili, che consente l’irrogazione di una pena adeguata al caso concreto.
La Corte rimedia al vulnus costituzionale con una pronuncia costituzionalmente “adeguata” (non “obbligata” e quindi rivedibile dal legislatore) introducendo nell’art. 600-ter, primo comma, lett.1), limitatamente al reato di produzione di materiale pedo-pornografico, la diminuente di cui all’art. 609-quater, Codice penale (“Atti sessuali con un minorenne”) che prevede “nei casi di minor gravità” una riduzione della pena non eccedente i due terzi.