Cronista di giudiziaria che, d’improvviso orfano, si trova a vestire i panni del poeta in questo commovente libro di versi
Oggi sono andato da mia madre,
a ripassare quella distesa
annodata e inutile di marmo,
con le mie solite due rose bianca e rossa.
Potente è il dolore che emerge dai versi di Parlami madre, di Nuccio Anselmo, cronista di giudiziaria che, d’improvviso orfano, si trova, suo malgrado, a vestire i panni del poeta. Lo conosco da decenni questo brillante bambino troppo cresciuto. E lo riconosco come fratello. Il suo libro di versi mi capita fra le mani mentre sto leggendo Ferrovie del Messico, romanzo di Gian Marco Grilli, ambientato durante la Repubblica di Salò. “Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta” dice al protagonista, Cesco, Tilde, la bibliotecaria innamorata di Steno, partigiano calzolaio che odia le armi. E lirico è, Nuccio Anselmo, quando narra dell’agonia della madre, Anna, che
…respirava stanca,
parlava stentando pensieri finali,
raccolta nel suo acciaio dell’ultimo momento.
La morte di una madre è inaccettabile. E infatti, quella, ricompare, nei momenti più inaspettati:
perso nel traffico, salendo le scale,
scrivendo un pezzo nel tardo pomeriggio,
passeggiando lungo una ringhiera di mare,
cercando il parmigiano in frigorifero,
oppure guardando un’altra madre vicina
che magari aggiusta un laccio sciolto di scarpa,
ravviva capelli spaesati o spinge una bicicletta
privata all’improvviso di rotelle.
L’ironia, affettuosa e commovente, giunge poi con Il ritratto:
A mia madre il mare quando arrivava l’estate
non glielo dovevi levare per nessuna ragione.
Aspettava luglio come fosse la resurrezione
dopo la stufa a kerosene dell’inverno
che lo portavano ogni due settimane
nei grandi bidoni blu scuro
e se c’era troppo freddo
ci cambiavamo lì vicino.
Si perde e ci fa perdere, l’autore, in quello che Roberto Alajmo, nella quarta di copertina chiama “labirinto della memoria”, affermando che in esso “consiste il senso della letteratura” e il senso stesso di Parlami madre. Una memoria che sembra dissolversi ma in realtà muta, s’arricchisce. Grazie alla piccola immortalità concessa agli umani quando trasmettono ai figli – e soprattutto a quei nipoti che hanno la ventura di ereditare un nome -, parti di sé: indole, carattere, tratti somatici. E c’è un’altra Anna, dopo la nonna:
Sai mamma, Anna si è laureata in Psicologia.
Era bellissima con il suo tailleur blu elettrico
e aveva i bottoni dorati e la mascherina in tinta.
È stata bravissima. Come sempre.
Sono molto orgoglioso di lei.
Il lutto, il dolore più straziante, non può interrompere un rapporto d’amore. Non per un marito, che il figlio trova
… ad aspettare
seduto sul bisolo con la testa bassa.
Anna era tutto per lui.
Ora ha soltanto un foglio di carta
stampata al computer
che non vuole strappare.
Non per il figlio stesso, che non importa quanti anni abbia: è sempre un bambino.
Esci dall’acqua che hai le labbra viola.
Qualche volta, di sera,
quando sono tornato dal giornale
dopo lunghi giri d’asfalto deserto
per fumarmi l’ultimo sigaro della giornata,
mi compaiono davanti al vetro
offuscato del parabrezza
quelle raccomandazioni di mia madre.
E torna allora ad accarezzarci quella commovente ironia:
La maglia di lana,
le scarpe sono nuove
mi raccomando non giocare a pallone,
i pantaloni li abbiamo comprati giovedì
non li bucare la domenica,
se mangi la cioccolata ora poi non avrai più fame,
resta a casa che oggi fa freddo,
i tuoi capelli sono troppo lunghi,
ma questo è fazzoletto da portare in giro?
ecco le toppe blu ci stanno bene sulla tuta,
non fare tardi e stai attento.
Stai attento.
È a quel punto che tutti diventiamo Nuccio Anselmo. Tutti figli. Di tutte le madri, comprese le zie nubili Maria e Santina, ma anche quelle
di figli sparati,
marciapiedi di sangue
ostensorio di mani macchiate.
Gridavano inginocchiate
sugli ultimi corpi
per ascoltare
le voci soffiate.
Così esplode anche in noi, che leggiamo, l’insopprimibile necessità di parlare con nostra Madre:
Parlarle e chiedere perdono.
Per tutte le volte che l’ho trattata male.
Per tutte le volte che l’ho mandata a quel paese.
Per tutte le volte che non ho telefonato.
Per tutte le volte che non le ho creduto.
Per tutte le volte che non le ho parlato.
Per quella volta che non sono andato
a trovarla in ufficio.
Per le mie mani vuote quando si aspettava qualcosa.
Per i silenzi.
Per le giornate lontane.
Per le incomprensioni.
Per l’amore non detto e gli abbracci non dati.
Per le fughe dalla sua anima.
Per le domeniche senza il suo pranzo
visto che oramai vivevo altrove.
Per le volte che non ho voluto controllare
la cottura della pasta.
Ancora l’ironia. E ancora Ferrovie del Messico, nel passo in cui Firmino, l’amico d’infanzia di Cesco, in una lettera gli scrive: “Il senso dell’ironia, l’ironia della sorte, l’ironia e basta […] erano un magnifico modo per restare vivi anche dopo morti”. Per strafottere quella vita che prima ci illude, ci riempie di sogni e d’illusioni, e poi si fa beffe di noi. E, infine, l’ultima preghiera.
Perdonami madre per tutto quello che sai e non ricordo,
per tutto quello che so e non possiedo,
per tutto quello che puoi e non ho fatto.