Sono tornati alla ribalta, dopo che la ricercatrice Roberta D’Alessandro, rispose a tono al Ministro Stefania Giannini che aveva sottolineato l’origine italiana di una ricercatrice, facendone un vanto per l’Italia. Perché lasciano l’Isola e perché alcuni di loro decidono di tornare? Il problema di chi parte sembra essere maggiormente legato ai fondi e alle condizioni, spesso precarie, in cui si fa ricerca.
Anche una questione di numeri e spesso di mancata meritocrazia.
Si parte con la novità annunciata dal Miur lo scorso anno: oltre il 22 per cento delle risorse disponibili quest’anno sarà distribuito sulla base delle performance dei singoli atenei, tra quota premiale, programmazione triennale, dottorati di ricerca, fondo per i giovani e fondo perequativo.
Lo scorso anno (a.a 2013/2014), l’ateneo catanese ha ottenuto 9 milioni dal POR e 897 mila euro dal PON per il bando start up ricerca e connettività (4 progetti finanziati in totale). A questi si aggiungono 211 mila euro dal FIRB (fondo investimento e ricerca), 390 mila euro per progetti internazionali. C’è anche il MIUR a Catania con il finanziamento per la città della scienza (200 mila euro) e il ministero della difesa (16 mila euro). La ricerca si lega anche alla solidarietà. Telethon ha donato 90 mila euro, mentre 59 mila euro sono arrivati per finanziare una ricerca sulla Sclerosi multipla.
Infine, il fondo per il trasferimento tecnologico ha assegnato a Catania 500 mila euro.
Nello scorso anno, l’ateneo peloritano, che conta 563 ricercatori, 293 associati e 270 ordinari, ha investito 9 milioni sui ricercatori d’ateneo.
Infine il progetto Cerisi, riguardante la realizzazione di un centro di ricerca e innovazione per strutture e infrastrutture di grandi dimensioni, che ha fatto registrare rendicontazioni per oltre 2,5 milioni ed impegni di spesa per più di 18 milioni, su un importo complessivo di 22 milioni.
Ester Badami, oggi ricercatrice presso la Fondazione Ri.MED di Palermo che fa parte dell’ISMETT, si occupa dei meccanismi dell’immunità innata nell’infezione e nei tumori, con particolare interesse sul ruolo delle cellule Natural Killer (NK). Nel 2004, come dottorando Ester Badami ha ricevuto il premio “Metachem Diagnostic Prize” per il lavoro scientifico più innovativo per gli studi condotti sui meccanismi infiammatori nei disordini autoimmuni.
Ester perché ha deciso di tornare a Palermo?
“Perché c’erano le condizioni che aspettavo da tempo: una struttura qualificata ed importante come l’ISMETT che cercava un profilo come quello mio. Sono tornata in Sicilia, grazie ad un finanziamento riconosciuto dalla “Fondazione Banco di Sicilia” che ha appunto disposto 500.000 Euro per il rientro di giovani ricercatori siciliani con lo scopo di promuovere la ricerca in Sicilia. Dopo cinque anni in Inghilterra, mi sono fatta prendere dalla nostalgia. A Palermo avevo lasciato molto, in termini di affetti e vita personale”.
Perché fare ricerca in Italia oggi è difficile?
“I problemi oggettivi sono la mancanza di fondi e di strutture ideali per poter svolgere un lavoro produttivo. A questo si aggiunge la mancanza di meritocrazia, il baronismo. La mia esperienza è stata positiva e oggi mi sento di dire che c’è più meritocrazia rispetto al passato. Bisogna dire però che la carriera del ricercatore è difficile in ogni dove e che bisogna lavorare duro, cercare i fondi e andare all’estero come tappa fondamentale professionale e personale. Infine, la ricerca ad alti livelli all’estero è possibile soprattutto grazie a fondi privati”.
Mai pentita di essere tornata in Sicilia?
Fino ad ora mai. Ci ho messo un anno prima di decidere di tornare e sapevo che poi sarebbe stato difficile ripartire. Oggi sono qui con mio marito e mio figlio. Alcuni problemi che c’erano prima della mia partenza ci sono ancora. Ma oggi vedo e vivo tutto con spirito diverso. In Sicilia ci sono delle eccellenze, come l’Ismett che non hanno nulla da invidiare al resto del mondo”.
Per lui, la mobilità nella ricerca scientifica è un punto chiave della formazione. Dopo la laurea, il dottorato in Germania e il post doc a Stanford, negli Stati Uniti. Dal 2015 lavora come Independent group leader al Max Planck Institute of Psychiatry a Monaco di Baviera.
Lasciare l’Italia nel tuo caso è stata una necessità?
“Si e no. Da un lato, dopo la laurea, era chiaro il concetto che per me non c’era alcuna possibilità di restare al Dipartimento di Scienze Biologiche di Palermo. Dall’altro, avendo già preso parte all’Erasmus, avevo voglia di andare a fare un dottorato all’estero. Non ho provato a cercare in Italia perché ho subito avuto il sentore che avrei lavorato meglio fuori”.
Perché fare ricerca in Italia oggi è difficile?
“La mia percezione è che la cattiva distribuzione dei (pochi) fondi governativi sia il problema maggiore, seguito da una forte incertezza sulla struttura della carriera. Ci tengo però a precisare che (purtroppo) l’incertezza sulla struttura della carriera è parte integrante delle carriere accademiche. Alla fine di ogni “step” la competizione è sempre aperta e molto forte (ovunque). Anche per questo motivo la mobilità è importante. Ad ogni mio step, sfortunatamente, non ho mai trovato l’ offerta che cercavo in Italia”.
Quali le differenze con l’estero?
“All’estero (negli Stati Uniti ed in Germania, nel mio caso) ho l’impressione che il merito sia valutato in maniera diversa, che le risorse che ho a disposizione siano più solide e l’avanzamento nella carriera sia più veloce”.
La struttura dove ti trovi oggi, sarebbe possibile in Italia?
“La Max Planck society è finanziata dal governo (un po’ come il CNR) ma ha una struttura molto diversa che in Italia al momento non esiste. Il governo tedesco investe molto di più di quello italiano nella ricerca: sono due gli organismi nazionali per l’assegnazione competitiva di fondi di ricerca, tre o più società di ricerca applicata e di base ad ampio raggio finanziate direttamente dal governo. In più il governo ha un programma davvero intenso per attrarre ricercatori tedeschi e non dall’estero a tutti i livelli”.