Un progetto culturale nella città di Messina Denaro. I corsi di "non recitazione" e la critica agli attori
CASTELVETRANO (TP) – Teatro? Sì. Nella città di Matteo Messina Denaro? Proprio lì. Un custode. Un testimone. Un soldato-generale, un generale-soldato. Che chiama alla riscossa da anni. Giacomo Bonagiuso è questo e tanto altro: regista, saggista, autore, filosofo… Ma soprattutto, cittadino militante. Ha deciso da che parte stare: “La cultura stessa, in una terra di frontiera come Castelvetrano, è un baluardo contro la mentalità mafiosa. E non lo è in termini di antimafia, perché purtroppo anche una certa antimafia si è trasformata in una ritualità perversa”.
Con una missione: “La vera rivoluzione culturale è stata, in questi ultimi 25 anni, contribuire, con o senza supporto pubblico, alla formazione delle giovani generazioni e alla creazione di un tarlo simbolico, utile a mettere in crisi, anche nelle generazioni non più giovani, l’idea di mondo, di vita, di società, di giusto ed ingiusto, di bello, di frivolo e di commuovente. E tutto questo avviene attraverso il nostro teatro”. E con qualche prezzo da pagare: “A volte penso che questa cosa sia stata così chiara, ai tempi della Giunta sciolta per inquinamento mafioso, che uno dei primi atti di quel governo cittadino fu quello di togliermi di mezzo dall’apparentemente innocuo Teatro Selinus, anche quando avevo accettato di lavorare gratis. Ma restavo scomodo e non controllabile”. Bonagiuso è comunque riuscito a rimanere in piedi: “La scuola di teatro che avevo costruito al Selinus non è morta. Ne ho portato con me le ragioni, costruendo insieme ai miei allievi il Kepos Performing Theater, unica fabbrica di teatro di ricerca nella periferia della provincia, dove il motto non è quello di far teatro affinché Giacomo Bonagiuso potesse diventare “madrina” di allegre manifestazioni, tagli di nastri, di posizionamenti para-massonici, e altre amenità del genere, ma perché medici, avvocati, studenti, operai, contadini, farmacisti, insegnanti potessero scoprire la capacità, che il teatro è ed ha, di raccontare il mondo. Questa sì che è rivoluzione, questa sì che è attività antimafia, questo sì che è pensiero eretico o laterale”.
Ed il suo pensiero eretico sale in palcoscenico, perché il laboratorio teatrale – tempo ormai limite per le iscrizioni – è aperto a tutte le età e va controcorrente. “Non amo – sottolinea Bonagiuso – lavorare con gli attori. Mi perdoneranno, ma molti di loro sono schematici, poco duttili, meccanici, e soprattutto si portano dietro un “mestiere” che è d’intralcio al racconto del mondo che mi interessa portare in scena. I miei performers ideali sono persone che hanno vissuti umani, lavorativi e sociali diversi dalla dizione, o dal movimento scenico precostituito, o dalla carriera. Appena un artista comincia a pensare alla carriera, di colpo, tutto diventa annacquato, mediato”. La sua sfida è un’altra: “Il progetto che c’è dietro il nostro teatro è semplice ed è scritto a caratteri cubitali sulla parete esterna del nostro laboratorio. “Non è il teatro che è necessario, ma assolutamente qualcos’altro: superare le frontiere tra me e te, arrivare ad incontrarti per non perderti più tra la follia, né tra le parole, né tra le dichiarazioni, né tra idee graziosamente precisate, rinunciare alla paura ed alla vergogna alla quale mi costringono i tuoi occhi appena gli sono accessibile tutto intero. Non nascondermi più, essere quello che sono. Almeno qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora. Trovare un luogo dove tale essere in comune sia possibile”. Lo scrive Jerzy Grotowski. Non è il più grande manifesto rivoluzionario per il nostro tempo?”. Bonagiuso fa teatro e fa dunque politica. E non si nasconde: “Quello che ho appena raccontato è politica con la p maiuscola, sia dal lato degli interpreti che dal lato degli spettatori. Il rito si muove sempre in due direzioni. La passerella e la sagra sono politica minuscola, da cui purtroppo la provincia non riesce a liberarsi, anche a causa della ricattabilità dei teatranti. L’arte dovrebbe essere, deve essere, in senso morale, eversiva, eretica in primis, come direbbe il mio amico Antonio Presti. La bellezza non può mai essere complice”.
A teatro non si recita. Ed uno dei corsi di Bonagiuso è la “non recitazione”. Una provocazione? “Mi verrebbe da rispondere che interpretare significa tornare alle origini del fatto teatrale. Il teatro è il tempio dell’interpretazione, non della recitazione. La recitazione a me non è mai piaciuta. Non mi interessa un teatro frivolo, meccanico; quella roba dove gente imbellettata, fresca di parrucchiere, esibisce l’ultimo vestitino alla moda, mentre in scena si parla di cose che smuovono le viscere, ad esempio. Il teatro deve accordarsi alla propria intima vocazione: chi lo fa e chi vi assiste! È un rito. Né più né meno. E i riti non si spezzano. La frivolezza non può appartenergli, né prima, né durante, né dopo. È un evento e questo deve rimanere”. Quasi un pugno nello stomaco: “Io cerco fino in fondo di mettere a disagio lo spettatore. Nei miei spettacoli cerco di provocarlo al limite della sua sopportazione. Deve stare scomodo. A disagio. Deve andare a casa con una serie di domande, non a cena sereno e tranquillo”.