PALERMO – È trascorso oltre un secolo dalla prima volta in cui la cosiddetta “questione meridionale” balzò agli onori della cronaca e ad oggi essa è tutt’altro che risolta.
Correva infatti l’anno 1877 quando due dei parlamentari della destra storica, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, pubblicarono la loro inchiesta sulle – disastrose – condizioni politiche e amministrative della Sicilia e da allora l’Isola ha sì compiuto importanti passi avanti ma continua ad accusare il colpo del gap che la divide dalle regioni settentrionali. E che neanche le opportunità offerte dallo status di “Regione speciale” sono riuscite a colmare: lo Statuto si è rivelato soltanto uno strumento alla mercé dei governi regionali che nei decenni si sono succeduti e che ne hanno fatto scempio, “invocandolo” per difendere i propri privilegi.
Per far luce sull’attuale stato di salute dell’Isola – e soprattutto delle sue finanze – abbiamo interpellato in esclusiva un osservatore “privilegiato” della nostra Regione: si tratta di Luca Bianchi, attuale direttore dello Svimez ma anche ex assessore regionale all’Economia nell’era Crocetta.
Direttore Bianchi, qual è lo stato di salute dell’economia siciliana?
“La situazione è piuttosto complicata nel senso che la Regione ha subito molto forte l’impatto della lunga crisi che ha accompagnato dal 2008 al 2013 l’economia italiana e meridionale in particolare. La situazione è molto pesante perché attualmente il Pil regionale è circa 12 punti al di sotto del livello del 2008. Nonostante una leggera ripresa degli ultimi tre anni, siamo ancora con un livello del Pil al di sotto di quasi 12 punti rispetto a quello del 2008. Questo vuol dire che non si sono ancora assorbiti gli effetti di quella profondissima crisi ed anche sul fronte del mercato del lavoro abbiamo ancora circa 100 mila posti di lavoro in meno rispetto ai livelli pre-crisi. Parlando di una regione che già mostrava dei divari rispetto al resto del Paese, è una fase oggettivamente molto complicata. Ciò non toglie che esistano elementi di vitalità, nonostante questa fase complessiva molto difficile”.
Per esempio?
“Il settore privato, soprattutto nella fase di ripresa degli ultimi tre anni, ha mostrato per esempio una certa resilienza alla crisi. Faccio riferimento in particolare ad una ripresa modesta ma interessante del comparto industriale, all’interno del quale buone performance sono state quelle del settore agroalimentare e quelle di una parte dei servizi legati al comparto turistico”.
Cosa ha fatto il governo Musumeci e cosa invece deve ancora fare?
“Le situazioni di contesto sono sempre molto complicate perché da un lato abbiamo una fase di crisi profonda con impatti sociali molto rilevanti e dell’altro esiste un fardello del passato in termini di debito accumulato nel corso degli scorsi decenni che rendono i margini di manovra del bilancio molto ridotti. Questo è un vincolo difficile per qualsiasi governo di qualunque colore politico. All’interno di tali difficoltà va rilevata la difficoltà ormai persistente dell’utilizzo dei fondi europei, che rimane la scommessa persa da parte di molte delle regioni meridionali ed in particolare della Sicilia, che è riuscita a conseguire gli obiettivi di spesa 2018 con un largo uso dei cosiddetti progetti sponda, cioè certificando spesa già realizzata su altri fondi. Continua ad emergere una difficoltà progettuale nel fare progetti e nello spendere risorse”.
Nell’ultimo bilancio preventivo approvato dall’Ars, la maggiore quota di uscite è rappresentata dai capitoli di spesa corrente: su un totale di 17 miliardi, 15 sono stanziati per voci certe e improduttive, contro gli appena 160 milioni destinati alla spesa in conto capitale. Come leggere questi dati?
“La gran parte della spesa corrente è purtroppo legata ad impegni di spesa assunti nelle precedenti gestioni da cui è difficile liberarsi. Quella in contro capitale resta assolutamente marginale e legata quasi esclusivamente ai fondi europei. In tutto ciò si aggiunge un forte indebolimento della pubblica amministrazione regionale che, per effetto del blocco del turn over, dell’invecchiamento progressivo del personale dipendente e della mancata entrata di nuove competenze, la rende particolarmente debole. Su questo punto andrebbe fatto un forte investimento che richiederebbe alcune scelte più coraggiose nel senso di attaccare alcuni privilegi strutturali della regione siciliana rimettendo nel circuito produttivo anche una parte della spesa assistenziale, che vuol dire appunto dai tradizionali forestali ed altre forme di trasferimenti che in qualche misura sono a carico del bilancio regionale e lo appesantiscono senza dare un aiuto in termini di sviluppo e di opportunità per le nuove generazioni”
Autonomia regionale differenziata: le regioni settentrionali pressano per ottenerla e non intendono indietreggiare. Il timore che la Sicilia possa essere penalizzata da questo tipo di scelta è fondato?
“Assolutamente sì. Noi come Svimez abbiamo espresso fortissime preoccupazioni su un disegno di autonomia differenziata che punta ad un maggiore trattenimento delle risorse verso le regioni più ricche: se si attuasse questo modello avremmo una riduzione delle risorse per il requilibrio territoriale ed anche un peggioramento dei servizi di cittadinanza nelle regioni del Mezzogiorno. Per come è impostato il disegno, tutte le regioni meridionali ci perderebbero, quando – e va detto – i dati attuali mostrano che in realtà c’è un divario di spesa perché le regioni del mezzogiorno attualmente godono di minori spese correnti soprattutto legate ai diritti di cittadinanza rispetto a quelle del centro-nord. Mi riferisco in particolare agli indicatori relativi alla spesa per l’istruzione, alla spesa per politiche sociali sulle quali abbiamo già adesso una mancata garanzia dei diritti di cittadinanza nelle regioni del mezzogiorno. Il Veneto, ad esempio, vorrebbe l’autonomia anche sul tema dell’istruzione perché vorrebbero più risorse da destinare all’istruzione per pagare anche di più gli insegnanti della regione, quando invece servirebbe una politica di riequilibrio territoriale a favore delle regioni del mezzogiorno. Basta citare un dato relativo agli alunni della scuola dell’obbligo, dove abbiamo un’offerta in Sicilia di tempo pieno che è un terzo di quella che c’è nelle altre regioni del centro-nord. Sul diritti di cittadinanza vanno assicurate uguali risorse e uguali servizi su tutto il Paese, a partire dalla scuola. Risolto questo, che vuol dire garantire livelli essenziali delle prestazioni uguali per tutti, è possibile discutere di una maggiore autonomia”.
Potrebbe la corretta applicazione dello Statuto siciliano essere l’ultima chiamata per i nostri politici a colmare il gap che ci divide dalle regioni più ricche?
“L’autonomia è un’opportunità nel momento in cui aumenta la responsabilità delle classi dirigenti e aumenta la possibilità del cittadino di controllare l’efficacia delle politiche messe in atto a livello locale. Rimane un’opportunità anche se l’esperienza del passato ha dimostrato esattamente il contrario: spesso dietro l’autonomia si è nascosta una minore trasparenza nei confronti del cittadino dell’azione della sua classe dirigente. Quindi è un’opportunità soltanto se aumenta la possibilità del cittadino di premiare o punire la sua classe dirigente rispetto alle azioni che pone in atto. Non ho un giudizio aprioristico ma certamente dipende da come viene attuata: la responsabilità della classe politica è sicuramente il principio cardine. La lunga esperienza siciliana ha impedito, attraverso la difesa delle aree di privilegio, il ricambio della classe politica mentre nel frattempo c’è stato un indebolimento dei servizi rispetto alla società nel suo complesso”.
Paola Giordano